Quando la mamma mi ha fatto salire in macchina non immaginavo che non sarei più tornato a casa, che non avrei più rivisto mio padre. Se lo avessi saputo, probabilmente avrei cercato una scusa per non salirci. Anche se sono un bambino, so riconoscere quando la mamma sbaglia. Così come quando sbaglia il papà. Ma non hanno sbagliato sempre.

C’è stato un momento in cui eravamo felici, in cui tutto andava bene. Ricordo le vacanze al mare, i pranzi con i nonni. I nonni che abitano in Italia, intendo. Perché quelli che abitano in Giappone non li avevo mai conosciuti. La mia mamma è giapponese. Ha conosciuto il mio papà e si sono sposati. Poi sono nato io, in Italia. All’inizio abitavamo in una piccola casa in centro, poi ci siamo spostati in campagna, in una casa più grande, con i cani e il giardino. E’ stato lì che sono cominciati i guai. La mamma lo diceva sempre che la vita in campagna non le piaceva, che non capiva perché dovessimo stare da soli tutto il giorno in un posto in cui non c’era niente. Non le piacevano i pranzi della domenica con i nonni e gli zii. Ha cominciato a chiedere sempre più spesso di trasferirci in Giappone. Ma papà non voleva. Nemmeno io volevo. Mi piaceva la mia vita. Ma non volevo che la mamma andasse via. A volte anche papà sbagliava. I miei genitori litigavano spesso. Mio padre diceva che lo doveva sapere, quando si era sposata, che quella sarebbe stata la nostra vita, che cosa pretendeva? Che lasciasse il lavoro, che io lasciassi la scuola e gli amici? Non erano cose sbagliate quelle che diceva, ma spesso gliele diceva da arrabbiato, alzando la voce. Allora mamma gli rispondeva che lui le aveva promesso che ci avrebbe lasciato trascorrere l’estate in Giappone. E’ vero, glielo aveva promesso una volta, dopo che avevano litigato di brutto. Ma io lo avevo capito che era una di quelle promesse così, di quelle che fanno i grandi, che poi non le mantengono. Papà non voleva stare un’estate intera senza di noi. Allora le aveva proposto di andarci in ferie per quindici giorni. Ma mamma aveva risposto che o tutta l’estate o niente. E allora niente. E’ difficile quando due genitori non vanno d’accordo. Quando sembra che parlino la stessa lingua ma in realtà non si capiscono. Non si ascoltano. Non sono capaci di ascoltarsi. Ognuno di loro vuole qualcosa per sé e non sono più capaci di cercare qualcosa che vogliamo tutti. “Tuo figlio non parla nemmeno il giapponese” gli ha detto un giorno la mamma. E il papà le ha risposto che quella era colpa sua, che non me lo aveva insegnato. Non c’era bisogno di andare in Giappone per imparare il giapponese, bastava che lei si decidesse una buona volta a parlarmi nella sua lingua. La verità la capisco solo ora. Non è che la mamma non volesse stare in Italia, a casa. La mamma a casa non c’era mai stata. Aveva continuato a vivere nella sua mente in un luogo che non era qui, con noi. Per questo, tutto quello che lei voleva aveva senso solo dove lei continuava a sognarlo. Non so come siamo arrivati a quel giorno in cui ce ne siamo andati, io e lei soli, in una macchina in cui aveva caricato due grandi valigie. Ma ci siamo arrivati. Sono salito su quella macchina convinto di andare a trovare i nonni. E invece sono salito su un aereo diretto in un paese che non conoscevo. Ho visto quel Giappone che la mamma sognava tanto, ma che non aveva niente a che fare con la mia casa. I suoni, i colori, le voci, tutto mi è sembrato da subito profondamente estraneo. Persino i nonni che mi aspettavano da tanto, ma ai quali io non sapevo proprio che cosa dire. Anche perché non sapevo in quale lingua dirglielo: in un italiano che non avrebbero capito o in un giapponese che non conoscevo? I nonni mi hanno detto che potevo anche parlare loro in inglese se preferivo. Non preferivo, sapevo a malapena pronunciare i colori. Mi hanno guardato con un’aria un po’ strana. I bambini in Giappone, alla mia età, parlano correntemente due lingue. Forse hanno aspettato tutto questo tempo il nipote sbagliato. E poi non c’era il mio papà. Non c’era quel giorno e non ci sarebbe stato nei giorni successivi. Non ci sarebbe stato più. La mamma non ne parla mai. Non mi chiede mai se ho voglia di vederlo, se mi manca la mia casa, se vorrei tornare in Italia. Non me lo chiede perché lo sa, e io ormai l’ho capito, che non ci torneremo più. Così mi sono rassegnato ad imparare il giapponese ed anche l’inglese. Ad inventarmi una vita che è così diversa da quella che è nei miei ricordi. Non è semplice imparare il giapponese. Ti devi sempre concentrare per riprodurre i suoni, per scegliere le parole. E’ talmente difficile che non solo devo sforzarmi di parlare in giapponese, devo anche pensare in giapponese. Devo sempre pensare in giapponese. Anche adesso penso in giapponese. Tranne quando penso alla campagna. Quella la penso in italiano. Questa è solo una storia. Ma, per la verità, è una storia assimilabile ad una delle tante storie dei figli divisi nati da unioni miste tra uomini italiani e donne giapponesi. Matrimoni o unioni d’amore che si trasformano in odio quando, alcune volte, diventa difficile il dialogo tra lingue, culture ed anime diverse. A farne la spesa, purtroppo, sono i figli. Figli che diventano dapprima contesi e poi, quando la separazione appare imminente, vengono portati dalla madre nella sua terra di origine. Da lì parte un calvario per i padri che restano in Italia e che si vedono negato il diritto di rivedere i propri figli, di mantenere un rapporto continuativo con loro, anche solo attraverso videochiamate o lettere. La legge sta dalla parte delle madri giapponesi le quali, soprattutto se dichiarano una qualche forma di pressione psicologica da parte degli ex mariti, vengono tutelate nel loro presunto diritto di essere le uniche responsabili della crescita dei figli, per i quali un riavvicinamento al padre, ancorché non nella terra d’origine, sarebbe traumatico. Quello che resta di una lunga trafila burocratica e di una lotta clandestina per ristabilire legami genitoriali che non possono essere messi in discussione sono figli a metà: a metà tra il passato e il presente, tra l’amore e l’odio, tra il ricordo e il desiderio, in bilico tra due mondi e culture che non trovano più nemmeno la capacità di sfiorarsi. Restano padri a metà, padri che vogliono vedersi riconosciuto solo il diritto di poter riabbracciare i propri figli.

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