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Il primo giorno che Miriam vide quella macchia rossa negli slip sdruciti pensò che fosse arrivata la sua ora. Pensò di avere una malattia grave, incurabile, e che presto Dio avrebbe preso la sua anima, come spesso accadeva agli altri bambini e bambine del villaggio. Non sapeva cosa fare.

Miriam era la più grande di cinque sorelle, una vera catastrofe per la sua comunità nigeriana. Sua madre veniva già trattata come un’emarginata. E adesso questo. Chissà cosa avrebbero pensato nella comunità. Cercò di lavare via quella macchia con la poca acqua rimasta. Non ne aveva più da bere per il resto della giornata, sarebbe dovuta tornare al pozzo. Cominciò a pregare che quel sangue sparisse. Ma più pregava, più sentiva quel liquido denso e dall’odore disgustoso che le colava tra le gambe, sporcandole le caviglie. Sua madre se ne sarebbe accorta. Se ne accorse infatti: fu la prima cosa che vide di ritorno dalla chiesa. “Non puoi andare a scuola domani” le disse con lo sguardo inespressivo. “Non potrai andarci finché non ti sarà passato”. Miriam la guardò incredula: quindi sua madre sapeva cosa le era successo? Forse era capitato anche a lei? Una cosa però l’aveva capita: sarebbe passato. Non sarebbe morta. Silenziosamente ringraziò Dio: di qualunque cosa si trattasse, non era giunto il suo momento. Non che la sua vita fosse esaltante: un’ora di cammino per andare a scuola e in chiesa, cinque chilometri a piedi per andare al pozzo ad attingere acqua potabile, cibo scarso e l’eterno rimpianto di non essere nata maschio. Eppure, l’idea di morire le appariva infinitamente peggiore. “Non c’è modo di fermarlo. Bisogna mettere una pezza e aspettare cinque o sei giorni che passi. Ma non lavarti in continuazione, non abbiamo abbastanza acqua e quando le mestruazioni verranno anche alle tue sorelle sarà una tragedia. Quando passerà potrai tornare a scuola. Ma ricordati che il mese prossimo torneranno”. Torneranno? Le parole della madre la gelarono. E doveva rimanere a casa da scuola? Certo, come faceva a presentarsi a scuola con una pezza lurida in mezzo alle gambe che non poteva lavare per non togliere acqua a sua madre, suo padre e alle sue sorelle? Una vera tragedia. La scuola costituiva una delle poche parti belle della sua vita. Giocare con gli altri bambini, imparare a leggere e a scrivere: come poteva pensare di sostituire tutto questo con il badare ad una pezza zuppa di sangue? Istintivamente cominciò a piangere: si sentiva triste e disperata come non lo era mai stata. Pensò che Dio era ingiusto con le femmine, poi si accorse di avere commesso un terribile peccato avendo pensato a questo e così diventò ancora più triste. Passò una settimana. Come preannunciato dalla madre il sangue cessò e Miriam poté tornare a scuola. Venne accolta da Madonna, la sua più cara amica, con un abbraccio festoso. Le chiese dove fosse stata tutto quel tempo. Si vergognava a morte, ma pensò che  alla sua amica poteva raccontarlo. E così vuotò il sacco: le raccontò della pezza che alla fine aveva dovuto buttare, perché così intrisa di sangue che tutta l’acqua del pozzo non sarebbe bastata per lavarla in profondità; del dolore al ventre; delle ore passate a contorcersi per il male e per la rabbia di non potersi dedicare ad altro; della delusione per non essere riuscita a svolgere nemmeno un compito. “Anche a me è successo il mese scorso” sussurrò Madonna. “E anche a me è capitata la stessa cosa. Mia madre mi ha proibito di venire a scuola e mi ha tenuto persino lontana da mio padre e dai miei fratelli, perché mi ha detto che è sconveniente che gli altri ci vedano quando siamo in queste condizioni”. Anche alla sua amica. Perciò questa cosa delle mestruazioni riguardava tutte le donne. Era proprio così. Di lì a pochi mesi Miriam e Madonna cominciarono ad assistere alle improvvise e periodiche assenze di tutte le loro compagne della comunità. Si assentavano per una settimana, poi tornavano come se nulla fosse successo. Le insegnanti le accoglievano come se fosse tutto normale, come se fosse la cosa più naturale del mondo assentarsi da scuola per una settimana al mese. Di questo passo sarebbero rimaste talmente indietro che tanto valeva ripetere l’anno. Ma la cosa peggiore era l’immenso imbarazzo. Perché le mestruazioni non avvisavano, venivano e basta. A volte capitava a casa, nel proprio letto o mentre svolgevano qualche servizio domestico. Ma a volte accadeva proprio a scuola. Ed era lì che si moriva di vergogna. Chiunque poteva accorgersene vedendo le macchie rosse sui vestiti. Così dovevano abbandonare le lezioni di corsa e fuggire a casa, come ladre. Un giorno accadde proprio questo. Miriam era a scuola, era appena arrivata. Si era seduta nel primo banco, come faceva di solito. Aveva appena cominciato a scrivere, quando sentì il solito serpeggiare che dalla pancia al basso ventre fluiva sempre più giù. Ormai era diventata esperta. Si alzò di scatto dalla sedia, prima che il liquido le potesse tingere di rosso la gonna. Scappò fuori dalla stanza, in cerca di un luogo appartato in cui potersi tamponare in attesa di tornare a casa. Inaspettatamente la sua maestra, invece di assumere lo stesso atteggiamento indifferente di sempre, le corse dietro. “Vuoi provare con queste?” e le porse un paio di slip più grosse, imbottite probabilmente di altra stoffa. “Alcune signore sono arrivate al villaggio e ci hanno insegnato a cucire queste” le disse “servono alle ragazze quando hanno le mestruazioni. Per non sporcarsi. Loro dicono che possono anche continuare a venire a scuola con queste”. Mutande imbottite. Non ci avrebbe mai pensato. “E poi cosa ne facciamo quando diventano zuppe?” chiese Miriam in ansia. “Ve le togliete e ne mettete un altro paio. Periodicamente andiamo al pozzo a lavarle. Le signore ci hanno insegnato a cucirle, noi lo possiamo insegnare a voi. È facile, possiamo farlo anche a scuola. Ci sono decine di ragazze, presto tutte avranno le mestruazioni. Ditelo alle vostre madri, non è necessario che non frequentiate più la scuola”. Cercò di immaginare la faccia di sua madre mentre le diceva che poteva frequentare la scuola anche con le mestruazioni perché poteva mettersi un paio di mutande assorbenti. Poi si ricordò che un giorno le aveva detto che poteva andare a scuola anche se era femmina e povera. Sua madre aveva assunto un’espressione a metà tra lo sdegno ed il terrore. Ma poi a scuola aveva cominciato ad andarci. Può sembrare assurdo, ma in Africa nulla lo è. Ciò che a noi donne occidentali può apparire banale, come il gestire il ciclo mestruale, può diventare un grosso problema quando non si hanno vestiti, acqua e sapone a disposizione. Le donne possono gestire le mestruazioni solo in ambiente domestico, lontano dagli sguardi dei maschi, al riparo dalla vergogna di essere femmine. L’associazione Save the children sta lottando per vedere riconosciuto alle ragazze il diritto di affrontare questa delicata fase senza rinunciare al diritto di frequentare la scuola. Dodici settimane all’anno sono circa tre mesi di sospensione delle lezioni. Troppo per una nazione che ha indici di analfabetismo ancora molto elevati. Senza considerare che le mestruazioni in questo modo rischiano di diventare uno stigma sociale, acuendo la differenza tra chi può e chi non può. Le volontarie dell’associazione insegnano alle ragazze dell’età di Miriam a cucire degli slip assorbenti. Indossarli consente alle ragazze di frequentare la scuola senza imbarazzo anche durante il ciclo. Ma non è sufficiente questo. È necessario sensibilizzare le comunità al fatto che è diritto di tutte le donne vivere il ciclo mestruale come una fase naturale, senza la quale non si potrebbe nemmeno procreare e pertanto non può essere vissuto dalle donne nella più completa solitudine. Le donne vanno tutelate nel loro diritto a vivere la femminilità introducendo strumenti a basso costo che possano ristabilire un livello di vita normale e soddisfacente. Sono tante le ragazze che a scuola imparano a cucire gli slip, diffondendo questa pratica anche all’interno delle comunità. Fa sorridere, ma nemmeno tanto. Più che altro penso a questo: la vera libertà nel 2020 è poter andare a scuola con un paio di slip assorbenti. E battersi perché qualunque donna possa farlo.