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Non sapeva nemmeno come aveva trovato il coraggio. Da diversi giorni osservava di nascosto gli aerei che atterravano e decollavano dall’aeroporto di Abidjan. Sognava di poter salire su uno qualsiasi di essi, ma non di nascosto, come un vero passeggero.

Si immaginava con una valigia, anche se non ne aveva mai posseduta una, salire sulla scaletta e rispondere al sorriso ammaliante di una di quelle hostess che vedeva sempre arrivare ben vestite e truccate. Si chiedeva cosa succedesse su quell’aereo. Forse davvero i passeggeri volavano seduti su comode poltrone e a bordo servivano cibi caldi e bevande dolci. Al solo pensiero si doveva trattenere la pancia: non mangiava da giorni e anche solo pensare al cibo gli provocava delle fitte atroci alla bocca dello stomaco. Continuava a fissare l’aereo e si domandava cosa sarebbe successo se davvero avesse tentato di prendere uno di quei voli. Ma non poteva davvero cercare di salire a bordo. Era solo un bambino. Gli avrebbero chiesto dove fossero i suoi genitori, il suo bagaglio, dove fosse diretto. Non poteva certo dirgli che non gli importava dove fosse diretto il volo, ma solo che lo portasse via da lì. Lui e sua madre avevano già provato a scappare dal villaggio, ma quelli che promettevano di portare la gente in Europa in cambio di denaro volevano troppi soldi e loro non avevano nemmeno quello che serviva per non morire di fame. Nascosto dietro un muro diroccato osservava quell’aereo che gli sembrava la cosa più grande che avesse mai visto: lo guardava e si chiedeva se esistesse un piccolo spazio in cui potersi nascondere, in cui potesse, non visto, tentare di decollare insieme all’aereo. Erano ormai diversi giorni che andava a nascondersi sempre nello stesso posto. Gli aerei scendevano e si innalzavano nel cielo sempre allo stesso modo. Quando decollavano le ruote piano piano si staccavano dalla terra e si andavano a nascondere nella pancia dell’aereo, rannicchiandosi come le sue gambe contro il busto quando si nascondeva perché sua madre e i suoi amici non lo trovassero. Quando invece atterrava, quell’enorme pancia si apriva ed uscivano quelle ruote gigantesche, grandi come la sua capanna, in attesa di sfiorare la terra e fermarsi, come un monumento, in mezzo a quell’aeroporto desolato. Provò ad immaginare di entrare nella pancia dell’aereo. Non sarebbe mai riuscito ad arrampicarsi. Era troppo alto. Ma avrebbe potuto nascondersi nel carrello che sorreggeva le ruote. Da lì sarebbe stato semplice lasciarsi caricare dentro l’aereo. Con un po’ di fortuna non sarebbe nemmeno stato troppo stretto. Doveva solo fare attenzione durante l’atterraggio, perché l’aereo si muoveva velocemente anche se in arrivo, si sarebbe dovuto tenere stretto stretto al carrello. Che sciocchezze. Nessuno viaggia sul carrello di un aereo. E poi, cosa avrebbe fatto una volta giunto a destinazione? Cosa avrebbe detto se lo avessero scoperto? Niente. Non gli avrebbe detto niente. Non sapeva nemmeno in quale lingua gli avrebbero parlato. Ma sarebbe stato in Europa e non avrebbero di certo potuto rimandarlo indietro. Gli avrebbero dato da mangiare e una casa vera in cui vivere, avrebbe potuto chiedere che aiutassero anche sua madre a raggiungerlo. Era una pazzia. Eppure quell’aereo era lì ad attenderlo. Non sapeva dire quel giorno cosa lo avesse spinto a provarci davvero. Forse ne aveva visti partire troppi e temeva che, un giorno, avrebbero smesso di atterrare proprio così vicino a lui. Forse quel piano di nascondersi nel carrello, a forza di sognarlo, non gli sembrato poi così irrealizzabile. O forse sognava di scappare da così tanto tempo che i piedi avevano corso più veloce della sua testa e, senza quasi che se ne accorgesse, era già a metà della strada che lo separava dalle gigantesche ruote nere. Non l’aveva visto nessuno, i passeggeri erano già tutti quanti a bordo. Non era stato facile arrampicarsi sul carrello, ma la consapevolezza che oramai non si poteva più tornare indietro lo aveva aiutato. Si era aggrappato  ai tubi metallici e aveva cercato di appiattirsi il più possibile. Sentiva il rombo dei motori. Ormai era fatta. Doveva solo non perdere l’equilibrio mentre il carrello si issava. Poi sarebbe stato salvo. L’aereo si muoveva, percorreva la pista di decollo, si sollevava, barcollava un po’ in cerca di un equilibrio. Il carrello si piegava su se stesso e veniva piano piano ingoiato da quell’enorme pancia che si chiudeva lasciando dietro di sé un mondo che sembrava già molto lontano. E’ buio nella pancia dell’aereo. È freddo nella pancia dell’aereo. Lui non aveva niente con sé, non ricordava nemmeno più come e perché fosse salito su quell’aereo. Ma anche se l’avesse saputo, non avrebbe avuto comunque da niente da portare con sé. Difficile descrivere i minuti successivi. Gli sembrava quasi di fare fatica a respirare, ma non sapeva dire se era proprio fatica, oppure se erano un misto di emozione, paura e stanchezza a fermargli il respiro. E poi quella sensazione di freddo che non se ne andava. Non poteva certo chiedere aiuto e in quel buio assoluto al quale gli occhi non riuscivano proprio ad abituarsi non trovava nemmeno qualcosa che potesse usare per coprirsi. Si era rannicchiato il più possibile nel carrello, ma il contatto con il ferro gelido non migliorava le cose. Aveva paura. Paura di aver sbagliato tutto, di non arrivare mai dove aveva sognato di andare e di non vedere più sua madre. Chissà com’era preoccupata. “Forse l’Europa è vicina”, pensava illudendosi che quel supplizio durasse ancora poco. Socchiudeva gli occhi e in quel buio gli sembrava di vedere il profilo della sua capanna e di sua madre, piegata sopra un fuoco acceso, intenta a cucinare. Quella visione gli restituiva un calore necessario, gli sembrava persino che sua madre lo guardasse e gli sorridesse. Ma era stato solo un attimo, le palpebre non riuscivano a stare aperte: dovevano chiudersi, sotto il peso di un buio assordante e di un soffio di vita che si stava disperdendo nel rumore di un aereo in volo verso una destinazione che non avrebbe mai visto. Non conosciamo il suo nome. La polizia francese, al momento dell’arrivo dell’aereo all’aeroporto di Parigi, ha constatato la morte di un clandestino di una dozzina d’anni nascosto nel carrello. Non sappiamo chi sia, né quale sia stata la sua vita prima di incontrare la morte in questo viaggio disperato. Forse lo catalogheremo come un tragico incidente. Poi non ce ne ricorderemo più. Non sappiamo nemmeno il suo nome. È morto senza il calore di un abbraccio, senza che qualcuno gli tenesse la mano. È morto al freddo e al buio. Forse saremo ancora una volta capaci di fare finta di niente, ma la sua morte grava sulle nostre coscienze come un macigno. Quando non si ha niente non si ha niente da perdere, nemmeno la propria vita sembra più così importante. Perdonaci piccolo. Perdona la nostra indifferenza, la nostra falsa umanità, il fatto che consideriamo il privarci del superfluo come il massimo sacrificio; il nostro ignorare che intorno a noi c’è un’umanità che brucia, che muore di fame, di stenti, di malattie che noi occidentali non conosciamo più da secoli; perdona la nostra incapacità di guardare negli occhi la sofferenza umana, di non saper tendere la mano nemmeno a un bambino. Perdona la nostra mediocrità, il nostro crederci superiori a tutto e non concludere niente. Perdona il nostro egoismo, la nostra convinzione che “a qualcuno debba toccare”, basta che non siamo noi. Perdonaci. Perdonaci anche se questo non servirà a renderci migliori. Perdonaci anche se abbiamo reso un qualche significato alla tua vita solo nel momento in cui abbiamo lasciato che morissi di freddo e di fame. Perdonaci. E qualcuno potrà vivere nella speranza che il tuo perdono risvegli l’umanità da quel che oggi sembra un sonno senza ritorno.