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Ricordo come fosse ieri il giorno in cui ho bussato alla porta della Signora Yana. Avevo passato le settimane precedenti a cercare un lavoro senza riuscire nemmeno a rimediare un bicchiere d’acqua. Mi guardavano tutti dall’alto in basso, come se essere un’india di quindici anni in Perù fosse una sventura. I ricchi sono così, disprezzano tutto ciò che non possono comprendere e ciò con cui non riescono proprio ad identificarsi. La Signora Yana mi è sembrata diversa.

Le ho solo detto che stavo cercando un lavoro e che mi adattavo a fare qualsiasi cosa. Lei mi ha osservata per alcuni lunghi minuti e poi mi ha chiesto se non mi facesse paura la fatica. Certo che no. Ho cominciato a lavorare a dieci anni. Ho pulito case, sbattuto tappeti pesanti tre volte più di me, scaricato camion, preparato pranzo e cena per reggimenti interi, percorso chilometri a piedi con la spesa in una mano e almeno tre bambini moccolosi nell’altra. Tutto questo per un po’ d’acqua e un piatto di zuppa insipida. No Señora, non ho paura della fatica. Era una casa di ricchi come tante altre, ma mi sembrava di essere trattata umanamente. Sveglia alle sei, colazione da preparare, casa da rassettare, bambini da portare a scuola e da andare a riprendere, mobili da spolverare, giardino da tenere in ordine, pranzi e cene fuori programma da organizzare, a letto dopo le nove, quando avevo finito di pulire la cucina. Eppure mi sentivo una regina. La signora Yana pagava ogni  mese il mio salario, non come la signora dalla quale avevo preso servizio prima. Per quella ogni scusa era buona per non pagarmi: una macchia nel piatto, una piega invisibile nella camicia del marito, un gioco rotto dai bambini. Una qualunque di queste sciocchezze e la paga la vedevi il mese successivo. Forse. Ma, come dicevo, i ricchi sono così. Quando poi si stancano e trovano una ragazza più giovane e che si accontenta di qualche spicciolo in meno, si inventano che sono spariti dei soldi in casa e ti sbattono fuori senza paga e senza lettera di referenza. La Signora Yana invece era diversa. Non ha mai cercato scuse per non pagarmi. Magari a volte fingeva di essersi dimenticata che il mese era cominciato da qualche giorno, ma mi ha sempre pagato. E poi mi consentiva di andare a scuola. Nelle altre famiglie non mi era permesso, perché i lavori da fare erano sempre tanti. Così, dopo aver accompagnato i bambini a scuola, riuscivo ad andare anche io  e persino a fare i compiti, soprattutto la domenica, quando la signora mi lasciava libera. Non ero mai stata libera la domenica. Anzi, forse era il giorno in cui si lavorava di più, perché la gente ricca la domenica organizza pranzi, cene, viaggi e ci sono sempre un sacco di cose da preparare e da sistemare. La signora Yana invece la domenica la voleva passare con la sua famiglia e magari  preparare lei qualcosa. Rimaneva tutto lì da rimettere in ordine il lunedì, ma almeno la domenica potevo riposare. La prima domenica che ho avuto libera dopo tanto tempo non sapevo nemmeno bene cosa fare. Ho girato da sola a lungo per il paese e poi sono andata a messa. Era tanto tempo che non ci andavo. Ho usato una moneta della mia paga per fare un’offerta al Signore, chiedendogli di esaudire il mio desiderio: che la signora Yana non si stancasse mai di me. Gli dissi che avrei accettato anche più lavoro, una paga più bassa, ma ho pregato che la signora non mi cacciasse via. Perché la Signora Yana era buona. Non perdeva mai la pazienza e, anche quando non era contenta del mio lavoro, non usava mai la cinghia. Io le chiedevo perdono e tutto tornava come prima. Le altre signore invece, quando perdevano la pazienza, mi picchiavano e anche i signori. Persino i figli. Mi chiamavano “stupida india”, “incapace”, “ ma cosa vuoi mai pretendere da un’india”, dicevano, e il nome india, pronunciato dalle loro labbra, suonava come una sciagura. Non voglio più essere picchiata. Non è per il dolore o per i lividi, quelli passano con un impacco di limone. È che quando vieni picchiata e pensi di non aver fatto niente di male, è come se ogni cinghiata ti lacerasse l’anima. Si sente un dolore dentro,  più profondo dei segni. E per quello non esiste un impacco che lo lenisca. Forse sarei dovuta andare a messa più spesso. Perché ora la signora Yana non mi può più tenere. Dice che non può più pagarmi, né mantenermi da quando, a causa del Covid, suo marito lavora meno. Quindi l’alternativa è mandare via me. L’ho supplicata, l’ho implorata, le ho detto che non mi importa dei soldi. Che mi accontento di un solo pasto al giorno, che non andrò più a scuola, che non darò nessun fastidio. Non voglio andare in un’altra casa dove so già che mi tratteranno male. E, del resto, in questo momento, non è nemmeno facile trovare un’altra casa in cui prestare servizio e io un altro posto dove andare non ce l’ho. Che ne sarebbe di me? Spero che la signora Yana ci ripensi, perché se me ne andassi di qui sarebbe come perdere tutta la mia famiglia. La protagonista di questa storia è Adela, una minorenne come tante in Perù che si guadagnano da vivere accettando i lavori più umili e soprusi di ogni genere. È una ragazzina che si ritrova a credere desiderabile un posto in cui viene sfruttata forse un po’ meno che in altri posti. Che non può investire sul suo futuro, che sarà una delle migliaia di vittime invisibili della pandemia, che non potrà lavorare, andare a scuola, seguire lezioni a distanza. Il suo destino è segnato, lo era già prima della pandemia, ma in seguito all’emergenza sanitaria sarà ancora più impregnato di povertà e solitudine. Nessuna delle persone che hanno approfittato del suo lavoro essenziale è disposta, ora, ad un minimo sacrificio. Per questo Adela è sola, come tutte le altre vittime dell’egoismo del mondo.