I miei fratelli ed io capivamo che nostra madre era di nuovo incinta quando cambiava la disposizione delle nostre camere da letto. Quando il letto vicino al suo veniva spostato in una delle altre stanze della casa voleva dire che c’eravamo un’altra volta: di lì a poche settimane sarebbe tornata a casa con un altro marmocchio strillante.

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Non ci avrebbe fatto dormire né di giorno né di notte per un bel pezzo; io e i miei fratelli ci saremmo beccati per circa un anno sgridate senza motivo se non quello di mandarci a letto senza cena (perché si sa che i pannolini e tutta quella roba che serve ai neonati costa); fino a che quel marmocchio non fosse stato in grado di camminare e di andare in bagno da solo l’avremmo detestato, per tutte le attenzioni che richiedeva a nostra madre; e poi, inevitabilmente, ci saremmo abituati. Certo, sarebbe stato un altro fratello da accompagnare a scuola: lo sapevo bene io, che li dovevo accompagnare tutti e cinque, dal nido alle elementari, prima di andare nella mia classe alle medie. Il problema era arrivare a scuola in tempo alle otto del mattino e questo non accadeva quasi mai. La maggior parte dei professori mi riservava uno sguardo di sdegno, alcuni, a turno, mi facevano anche una nota sul diario, che mia madre firmava sempre lanciando a me e ai professori che l’avevano scritta degli insulti irripetibili. Diceva che lei con sette figli non sapeva come fare, che era da sola, che nessuno si occupava di lei. E poi la solita cantilena che sapevamo a memoria. Il problema era che nemmeno noi sapevamo come fare. Dal più piccolo al più grande ci alzavamo la mattina, ci preparavamo la colazione, ci vestivamo da soli, andavamo a scuola da soli. E’ vero, non sempre ci ricordavamo di mettere vestiti puliti, il più delle volte facevamo tardi perché ci fermavamo a guardare il negozio di giocattoli della signora Velia e non sempre io avevo il tempo di controllare che i miei fratelli avessero fatto i compiti. Ma di meglio non riuscivamo a fare. Ogni tanto nostra madre, quando evidentemente avevamo raggiunto il limite con i ritardi nel pagamento delle bollette e con le assenze ingiustificate a scuola, veniva convocata dall’assistente sociale, la signora Martina. Una volta mia madre mi aveva portato con lei insieme al mio fratello più piccolo. La signora Martina ci aveva fatto giocare nella stanza accanto mentre parlava con mia madre. Io attraverso la porta avevo sentito quasi tutto: le aveva dato una bella lavata di capo, dicendole che lei doveva provvedere a noi, che dovevamo andare a scuola puliti, in orario e accompagnati da un adulto. Dopo che l’assistente sociale aveva parlato con mia madre, per qualche giorno le cose andavano meglio: la mamma ci accompagnava a scuola, quando tornava a casa faceva più spesso le lavatrici. Per qualche giorno. Poi tutto tornava come prima. E quando le fatiche e la solitudine diventavano per lei insopportabili, ecco che ci accorgevamo che sotto la camicia spiegazzata cominciava a comparire all’altezza del ventre un rigonfiamento sospetto. E di lì a poco iniziavano gli spostamenti nelle nostre camere da letto. Non tutti i miei fratelli hanno conosciuto il proprio padre. Io sono stata fortunata, perché mio padre l’ho conosciuto e ogni tanto chiede di me e l’assistente sociale me lo fa incontrare. Poi c’è il papà di Kevin, che però adesso è in carcere; gli altri, invece, non li conosco. Quando mia madre è rimasta incinta dell’ultimo dei miei fratelli l’ho raccontato ad una mia compagna di scuola. Tanto ormai siamo sulla bocca di tutti. La mia compagna mi ha chiesto se mia madre si era sposata con il padre del bambino. Certo che no. Mi ha chiesto se ne era innamorata. Mia madre si innamorava tutte le volte e tutte le volte rimaneva sola. E finiva per prendersela con noi che, evidentemente, non potevamo colmare una solitudine ed una tristezza che venivano da molto, molto lontano. Quando cerco di ricordare mia madre felice non ci riesco. Ma anche quando cerco di ricordare me felice non ci riesco. Un giorno un insegnante, stanco dei miei ritardi e dei miei compiti non svolti, mi ha mandato dal Preside con una nota sul registro da firmare. Avrei voluto sprofondare dalla vergogna. Credevo che andare dal Preside, per di più con una nota sul registro, fosse la più grande delle umiliazioni. Invece ho trovato di fronte a me due occhi gentili. Non provavano sdegno, ma qualcosa di molto simile alla tristezza che provavo io. Sono rimasta seduta davanti a lui pochi minuti ed ho risposto alle domande che mi faceva. Hai accompagnato a scuola i tuoi fratelli anche questa mattina? Sì. Hai fatto colazione? Sì (ma era una bugia). Guarda, mi hanno appena portato dei biscotti, io non li mangio tutti, ne vorresti assaggiare qualcuno? Quella mattina, guardando quegli occhi così gentili, ho mangiato il biscotto più buono della mia vita. Ha firmato la nota sul registro senza dirmi niente e mi ha salutato dandomi una pacca sulla spalla, che però assomigliava più ad una carezza. Mi ha detto che se ogni tanto avessi avuto bisogno o voglia di parlare con lui dovevo bussare alla sua porta e lui avrebbe trovato il tempo di parlare con me. Credo che quel Dirigente manchi molto a Leila. A dire la verità, manca molto a tutti noi. Leila è stata l’esempio di come le fragilità genitoriali possano abbattersi sui figli e condizionare tutta la loro vita. La storia di Leila, dei suoi fratelli e di sua madre è molto complessa. Ma non è importante questo. Quello che ho voluto raccontare è che rispetto ai pregiudizi, alle valutazioni rigide, alle aspettative di certi adulti, viviamo tutti al margine. Leila non aveva bisogno di una nota sul registro per sapere di essere diversa da chiunque altro nella sua classe: quale ragazzino ha il compito di accompagnare i suoi fratelli a scuola? La nota sul registro ha avuto il solo effetto di enfatizzare questa marginalità e di renderla una colpa. Tutti viviamo al margine. Finché non incontriamo lo sguardo di chi quel margine lo vuole vivere insieme a noi. Andare dal Preside può costituire un’umiliazione, può divenire un’etichetta nella vita scolastica di qualsiasi alunno. Oppure, può diventare un’opportunità. L’ufficio del Dirigente può diventare uno spazio di ascolto. A volte, può costituire il vero input per includere le diversità una volta per tutte. Dipende da come ci si vuole giocare l’autorità, se la si vuole trasformare in autorevolezza. Dopo quella mattina, Leila ha bussato tante volte alla porta del Preside. Per scambiare una parola, per ammettere il suo ritardo e i suoi compiti non svolti; a volte, semplicemente per guardare quegli occhi che sprigionavano una compassione innata, anche se Leila non sapeva che si chiamasse così. Uno sguardo non può cambiare la vita delle persone, ma può riempirla di significati nuovi e questo è un insegnamento che Leila non ha mai dimenticato, nemmeno dopo il suo ingresso in comunità. Quando Leila cercava di ricordare se stessa felice, come lei stessa diceva, vedeva un buco. E quando pensava a qualche momento in cui si era sentita amata, le tornavano in mente quelle brevi chiacchierate in presidenza. Penso ai Dirigenti di oggi, che sono sempre più chiamati a conoscere le leggi, ad applicare il diritto, a sottoscrivere contratti, a rispettare bilanci, ad assumersi responsabilità circa la sicurezza e la privacy. Spero che, oltre al diritto ed all’economia, non dimentichino mai la pedagogia. Spero che trovino sempre il tempo per incontrare lo sguardo degli alunni, soprattutto di quelli che più degli altri hanno bisogni di essere “visti”. E che ricordino che la scuola inclusiva è affidata alla competenza ed alla sensibilità di tutti quelli che la abitano, traendo esempio in primo luogo da chi quella scuola la presiede. Come ho già detto, uno sguardo ed una chiacchierata, nella maggior parte dei casi, non possono cambiare la vita delle persone. Ma possono servire ad entrare nel loro mondo, a cercare di dare loro chiavi di lettura e strumenti dall’interno, a presidiare un percorso di crescita e di cambiamento quando le condizioni ed i contesti sono complessi e le probabilità di riuscita molto basse. E’ stata Leila a chiedere di entrare in comunità.  A volte gli sguardi non cambiano la vita, ma aiutano a desiderare di vedere altri sguardi d’amore intorno a sé. E anche se la strada è per Leila ancora lunga, so per certo che non ha mai rimpianto la sua decisione. Ma gli occhi di quel Dirigente, la sensazione di condividere un comune terreno umano che si provava ogni volta che si parlava con lui, quelli sì, le sono mancati molto. Soprattutto ora che quel Dirigente non c’è più. Ma io so quel che lui le avrebbe detto: “Ti auguro di trovare altri sguardi, che sappiano stringerti come un abbraccio e sappiano donarti le parole d’amore che ogni persona merita di trovare. Ti auguro di trovare occhi che credano in te e nella tua capacità di riuscire in tutto ciò che desideri, perché chi ha molto sofferto ha in sé la capacità di capire il mondo. Ti auguro che le persone intorno a te trovino sempre il tempo di ascoltare i tuoi silenzi e di cogliere in essi la bellezza di un dolore che può trasformarsi in rinascita. Ti auguro sguardi profondi che non si lascino intimorire dagli inciampi, dalle regressioni, dai fallimenti, ma che conservino l’amorevole consapevolezza che quando sembri ferma, immobile nelle tue paure, non stai tornando indietro. Stai semplicemente prendendo la rincorsa”.