La guerra non risparmia i bambini. Lo sa bene la Russia sovietica che, per circa un ventennio, fino a metà degli anni trenta, ha attuato un regime repressivo che ha causato carestie, degrado, carenza di valori e guerre civili. E quel regime che ha gettato la scure su migliaia di persone, colpevoli o innocenti, nell’ossessionante tentativo di debellare ogni tentativo di rivolta, di ribellione, ogni deviazione dalla legge, non ha esitato ad applicare la stessa assertività sui bambini.

La guerra e la repressione generano una miseria senza fine che, spesso, colpisce proprio i più deboli: bambini orfani, oppure improvvisamente divenuti capi famiglia, ma pur sempre bambini, la maggior parte appena adolescenti, che non sanno nulla della vita né di come guadagnarsi da vivere; bambini che si riversano nelle strade alla ricerca di un modo di sopravvivere fino al giorno successivo. Quando la società prima ti degrada e poi ti rifiuta, non ti lascia nemmeno molte alternative legali di sopravvivenza. Per questo la maggior parte di quei bambini, facili prede di gente senza scrupoli, venivano coinvolti in rapine e omicidi; quelli di loro che intendevano guadagnarsi da vivere più onestamente si prostituivano. E il regime che vantava un impianto di welfare state, invece di incontrare gli occhi di quella parte di Paese che implorava aiuto e misericordia, ha affondato la lama laddove la ferita era più profonda: quei bambini che attraverso l’illegalità cercavano di ricordare al mondo la loro esistenza sono stati duramente perseguitati, torturati, in alcuni casi persino condannati a morte. Qualsiasi minore da dodici anni in su veniva considerato consapevole delle proprie azioni, al punto da doverle risarcire, se necessario, con la propria vita. Ma nemmeno questo servì a frenare la spirale di miseria e disperazione che si era innescata. Li chiamavano besprizornye, bambini randagi, coloro che vivevano per strada, mendicando, vivendo nell’illegalità. Per la Russia sovietica erano i figli di nessuno, i bambini che nessuno voleva. Perché prima si spazzavano via intere famiglie e poi si aveva la pretesa che i bambini rimasti orfani non vivessero di espedienti, non rubassero, non si vendessero negli anfratti delle città; e, quando lo facevano, la macchina della repressione, che non aveva risparmiato i loro genitori e parenti, non risparmiava nemmeno loro. I bambini randagi erano bambini che fuggivano da una vita che noi non possiamo nemmeno immaginare: fuggivano da luride casa senza cibo, acqua né calore umano, fuggivano dagli orfanotrofi dove venivano regolarmente vessati, umiliati e lasciati morire di freddo e di fame, fuggivano dalle colonie dove tra i compagni vigeva la legge del più forte, avvallata dagli educatori che non intervenivano sulle nefandezze commesse dai più crudeli. Fuggivano e si riversavano in strada perché, forse, quando l’assenza di cura e di amore diventa l’unica certezza della propria vita, la prospettiva di morire di stenti non pare più l’alternativa peggiore. Come in tutte le storie spregevoli dei Paesi del passato e del presente, ciò che ricopre d’infamia deve essere cancellato. Quei bambini randagi non erano pericolosi per le illegalità che commettevano, anche se quando, intorno agli anni Venti, se ne contavano 7 milioni su una popolazione di 150, il tasso di criminalità era oggettivamente allarmante; quei bambini erano pericolosi perché macchiavano la propaganda ideologica che, agli occhi dell’Occidente e dell’URSS stessa, doveva costruire una società nuova; ecco allora che, quei bambini dai quali si sarebbe dovuti partire per la costruzione della società e dell’ideologia, diventavano invece la prova evidentemente del fallimento della politica di quegli anni: perché la verità era un Paese devastato dalla disuglianza, dalla fame e dalla miseria. Una miseria così profonda da rendere leciti, tra piccoli strati della popolazione più disperata, episodi di cannibalismo. Oggi si dice che “i comunisti mangiano i bambini”. Si tratta, per lo più, di una frase detta senza la consapevolezza di ciò che è stato. E se la gravità risiede in molte delle azioni e dei crimini compiuti, una gravità più grande risiede nell’essersi voltati dall’altra parte. Perché la storia è piena di mondi che, disorientati dalla falsa illusione del progresso, sono diventati ciechi, sordi e muti davanti all’umiliazione dell’umanità. Ancora oggi ci voltiamo dall’altra parte, fingendo di non sapere. Fra trent’anni ci racconteranno ciò che sta accadendo in questi giorni, in cui siamo presi dai preparativi per il Natale e per l’Europa 2020, in Turchia, in Afghanistan, in Syria, in Venezuela. Impareremo di regimi e dittature che stanno dilaniando la popolazione affamandola, distruggendo i loro diritti e primo fra tutti quello di raccontare la verità. E allora, quando non avremo più corpi da piangere e tombe da erigere, fingeremo stupore e dimostreremo un rammarico che non servirà ad impedire che quel che è successo, che da sempre succede, succeda ancora. E quando ci diranno che le spese di queste guerre di cui nessuno ci parla sono soprattutto i bambini, mostreremo uno sdegno ancora più grande, pensando che al mondo non ci possa essere nulla di più innocuo di un bambino. Ma i bambini non sono innocui, non per i regimi. I bambini portano negli occhi la memoria dell’umanità, i bambini rappresentano, in divenire, il ricordo di quello che è stato. Per questo nessun regime, nessuna guerra, li ha risparmiati, accanendosi su di loro come e più che sugli adulti i quali rappresentano, invece, poco più che carne da macello. Ma i bambini no.  A loro viene riservato un trattamento diverso, più duro. Perché i bambini hanno in sé la capacità di vedere il mondo per quello che dovrebbe essere ed hanno la dote di donare, a chi li sappia ascoltare, la forza di costruirlo. Ci volteremo ancora, perciò, tante volte quante sarà la nostra paura di chiedere che ci venga detta la verità. Tante volte quante sarà la nostra paura di cercare di cambiarlo davvero questo mondo, nella consapevolezza che un mondo più giusto è un mondo in cui tutti dobbiamo rinunciare a qualcosa, per consentire a qualcun altro di vivere dignitosamente. Tante volte quante sarà la nostra sostanziale indifferenza per coloro che ci rifiutiamo di vedere, di ascoltare, di toccare. Tante volte quante sarà la nostra paura di sporcarci le mani, di farci toccare dalla sofferenza e dal dolore autentico. Siamo tutti vittime di regimi, guerre, dittature e false ideologie, visibili ed invisibili. Di quei regimi e dittature che giocano su una paura più grande dell’essere obbligati, controllati, vincolati: quella di perdere. Perciò continueremo a voltarci. Continueremo a voltarci finché la paura di perdere cose sarà superiore a quella di perdere persone.