Giada guarda l’orologio appeso al muro della cucina: mancano cinque minuti alle 16,00. Mancano cinque minuti all’ appuntamento con Carlotta. Si danno sempre appuntamento a quell’ora, dopo aver fatto i compiti, in “piazzetta”; così i bambini di Via della Vigna chiamano la parte finale di una stradina chiusa alla quale si affacciano una decina di abitazioni: in realtà è un piccolo parcheggio, ma siccome tutte la famiglie parcheggiano la macchina davanti a casa, quel parcheggio quadrato rimane sempre vuoto e per questo sembra proprio una piccola piazza.

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A Giada e Carlotta piace incontrarsi in piazzetta da sole, prima che arrivino i maschi, così possono raccontarsi i loro segreti senza essere disturbate. Frequentano tutte e due la quarta elementare della scuola del quartiere, ma sono in due classi diverse. Per questo hanno sempre un sacco di cose da raccontarsi. Quando Giada arriva in piazzetta Carlotta la sta già aspettando con ai piedi un bel paio di pattini di un rosa acceso. “Sono bellissimi, ma li sai usare?” le chiede Giada. “No – risponde l’amica- il babbo mi ha detto che per imparare bisogna mettere cento volte il sedere per terra”. Ridono a crepapelle ripensando a quella frase e poi cominciano a pattinare tenendosi alla ringhiera dei giardini dei vicini; poi, abbandonati i pattini, si sdraiano sull’erba del prato dietro alla piazzetta. “Saremo sempre amiche, vero Carlotta?”. “Sì, sempre. E quando saremo grandi andremo ad abitare insieme, nella stessa casa, insieme ai nostri mariti”. Una frenata di bicicletta interrompe i loro progetti. È arrivato Lorenzo, evidentemente anche lui ha finito di fare i compiti. “Lo sai che io e Carlotta abbiamo imparato a pattinare? Vuoi provare?”. “Prima devo fare benzina” risponde lui e si avvicina al cancello dei Baioli per estrarre una pompa di cartone legata con un filo al palo interno della luce e lo avvicinandolo alla sella della sua bicicletta. “Se lo sa il babbo di Enrica che hai legato di nuovo la pompa al suo palo…” asserisce seria Carlotta. Ma in fondo lo sanno tutti che Bruno, il padre di Enrica, spesso li sgrida per gioco. Per questo alla ringhiera del suo giardino è attaccato di tutto: la pompa di benzina di cartone che Lorenzo e Riccardo hanno diligentemente ritagliato, una vaschetta di plastica che funge da cassa, persino una bottiglietta di plastica, che Giada e Carlotta usano come microfono quando tirano fuori il mangiacassette a pile e gli viene voglia di cantare. Proprio quel giorno Giada ha portato con sé il mangiacassette con una cassetta di Gianni Morandi, che si intitola Varietà. Alzano il volume al massimo e cominciano a cantare: “Parlami di te, bella signora…”. Si affaccia la signora Anna, la nonna di Carlotta. “Ancora con questo Gianni Morandi, Giada, non è ora che cambi disco?”. Ma ride nonna Anna, perché sa che Gianni Morandi è il cantante preferito in assoluto di Giada. “Se volete ascoltare una bella canzone dovete ascoltare quella di Masini che mette sempre su mia sorella” dice Lorenzo. “Mia nonna dice che è uno sciagurato che canta una canzone con una brutta parolaccia” risponde seria Carlotta. “Mia nonna invece dice che è bella perché è una canzone di protesta”, la nonna di Giada è sempre stata infatti piuttosto anticonformista. Un’altra frenata di bicicletta interrompe il dibattito. Questa volta è Antonio, che non ha finito i compiti e che, come al solito, è uscito senza farsi vedere da sua madre. Tra un quarto d’ora uscirà arrabbiatissima e la nonna Anna, che a quell’ora si mette sempre a sgranare i piselli davanti alla porta di casa, le dirà di stare tranquilla, che è al solito posto. “Giochiamo a nascondino?” propone Antonio. Tutti accettano con entusiasmo, lasciando in mezzo alla strada biciclette, pattini e mangiacassette. Ormai i condomini di quel cul de sac di Via della Vigna ci hanno fatto l’abitudine: non svoltano mai in fretta in quella strada, altrimenti corrono il rischio di investire qualche bambino che corre oppure di schiacciare una bicicletta o un giocattolo. Perciò suonano il clacson e aspettano che i bambini escano dai loro nascondigli e liberino il passaggio. Si separano sempre malvolentieri i bambini di Via della Vigna: quei pomeriggi di primavera in cui assaporano la libertà rappresentano tutto nella loro ordinaria vita di quartiere. Questa è stata la mia infanzia. Giada sono io. Sono io quella bambina che a tutte le ore del pomeriggio e della sera cantava Gianni Morandi e pattinava avanti e indietro per la piazzetta. L’attrito delle ruote dei pattini a contatto con l’asfalto produceva un rumore terribile, ma nessuno ci faceva caso. Anzi, più rumore facevamo e più le nostre mamme e le nostre nonne avevano la certezza che fossimo là fuori al sicuro, senza bisogno di uscire di casa a controllare. Le mamme e le nonne di Via della Vigna erano le mamme e le nonne di tutti: c’era sempre una merenda da condividere, una storia da raccontare, un consiglio da dispensare. Non mancavano nemmeno i litigi: ma in Via della Vigna una volta all’anno si faceva la cena del cul de sac, in cui ognuno portava fuori i tavoli, le sedie e la cena e tutto veniva condiviso e, di fronte alla damigiana di Sangiovese, dopo le prime note di Romagna mia, ogni dissidio veniva magicamente appianato. Quando mi sono sposata, invece del corteo di parenti, è stato l’intero vicinato a scortarmi alla macchina che mi avrebbe portata in chiesa. E da dietro il velo vedevo nonna Anna e Bruno Baioli asciugarsi le lacrime ricordando i bei tempi in cui svegliavo tutti dalla pennichella pomeridiana cantando a squarciagola Occhi di ragazza. Siamo cresciuti tutti così in Via della Vigna; e, come noi, moltissimi altri bambini della nostra generazione. I bambini avevano il preciso dovere di giocare, stando attenti a non mettersi in pericolo, e i vicini avevano il dovere di esercitare un controllo sociale condiviso. Nessuno si è mai lamentato per gli schiamazzi, per le biciclette costantemente parcheggiate in mezzo alla strada, per le coperte che stendevamo sui marciapiedi quando decidevamo di fare un pic nic pomeridiano in mezzo alle macchine. Finché abbiamo sperimentato la gioia di condividere un tempo di gioco in piazzetta, questo ha rappresentato per i nostri genitori la sicurezza che saremmo stati lontani da ambienti pericolosi. Lontani da playstation, computer e videogiochi sapevamo trovare il massimo della felicità e della trasgressione in una pompa di benzina di cartone legata di nascosto al cancello del nostro vicino di casa. Non è la condizione dei nostri figli oggi. A molti bambini, segregati in condomini freddi d’inverno e caldissimi d’estate, viene proibito di giocare nel giardino comune o nello spazio davanti a casa: perché disturbano i vicini con le loro voci, perché oggi tutti hanno l’impellenza di parcheggiare la macchina nel garage a tempo di record e non hanno certo il tempo di aspettare che un bambino tolga la bicicletta dalla strada. E così i bambini si annoiano e, quel che è peggio, si annoiano da soli, trovando diversivi unicamente nella televisione, nei videogiochi, in un mondo che fa loro perdere qualsiasi contatto con la realtà. In Via della Vigna l’inverno ci sembrava lunghissimo, quando il freddo e la pioggia ci impedivano di portare le nostre biciclette in piazzetta: ma in primavera tornavamo a vivere, felici di una libertà e di una parvenza di indipendenza che non ci paevano mai abbastanza. Perché non credo di sbagliare dicendo che la piazzetta per noi è stata la prima vera palestra di indipendenza: non c’era nessuno a mediare i nostri litigi, ad aggiustare le nostre catene della bicicletta quando scendevano, a limare le rotelle dei pattini quando si irruvidivano dopo i troppi incontri ravvicinati con l’asfalto. Ma, allo stesso tempo, c’erano tutti quando tornavamo a casa da scuola e la mamma di qualcuno non era ancora tornata dal lavoro e bisognava aggiungere un posto in più in tavola; quando in estate scoppiava un acquazzone e dovevamo trovare alla svelta una casa in cui ripararci. Quel buon senso che animava le relazioni e che faceva sì che le persone non soffrissero troppo nel privarsi di un pezzetto della loro libertà, perché sapevano di metterlo al servizio di una generazione di bambini che sarebbero cresciuti in maniera armonica ed altruista, è quello di cui più la nostra società individualistica e personalistica sente la mancanza. Perché non erano solo le famiglie con figli a mettersi a disposizione dei bambini del quartiere: tutte le famiglie, anche le coppie anziane, anche le famiglie senza figli, si mettevano a disposizione gli uni degli altri. I bambini di Via della Vigna erano tutti uguali. Anche quando, poco distante dal nostro cul de sac, costruirono le case popolari e si riempirono delle famiglie più svariate. I loro bambini, quando varcavano la linea di confine della piazzetta, erano bambini uguali a noi. Nessuno si è mai preoccupato di chiedersi di chi fossero figli. I bambini erano bambini e basta. Non è quello che pensiamo oggi, perché ogni persona che varca i confini più o meno pubblici o privati di qualsiasi abitazione deve essere chiaramente identificato pena la segnalazione alle forze dell’ordine. Questa diffidenza, questa cultura dell’individualismo sta mettendo in crisi profonda le famiglie che si sentono sempre più sovraccaricate di un compito di controllo che, nel lungo termine, non riescono a sostenere sempre e comunque, delegandolo al mondo virtuale. La playstation è la nonna Anna dei giorni nostri. Solo che la playstation non ha una parola di conforto da dispensare quando hai preso quattro in matematica e non sai come dirlo a tuo padre; non prepara le zucchine ripiene quando tua madre, stremata dai doppi turni al lavoro, si è dimenticata di cucinare il pranzo. I bambini di oggi, in molti casi, vengono privati di una grande opportunità di relazione e supporto. La società contemporanea pare essersi dimenticata che la relazione prevede un rapporto bidirezionale: se è vero che consentire ai bambini di giocare con i loro amici in giardino equivale, allo stato attuale, a privarsi di una parte di libertà è anche vero che alimentare un clima di tolleranza e supporto comporterà molto probabilmente, nel futuro, un reciproco atteggiamento supportivo e tollerante. Quando nonna Anna cominciò ad invecchiare e a non riuscire più stare in giardino tutti i pomeriggi a sgranare i piselli, tutti i bambini di Via della Vigna, diventati ormai quasi adulti, non perdevamo occasione per andarla a salutare: qualcuno le portava la spesa, qualcuno il santino che il sacerdote dava la domenica in chiesa, qualcuno passava anche solo per farle un saluto. Sono certa che non si sia mai sentita sola. Nessuno di noi si è mai sentito solo e abbiamo portato questo calore dentro di noi per tutta la nostra vita. È proprio di questo calore che la società contemporanea ha un disperato bisogno, per riattraversare la propria esistenza e riscoprire se stessa in tutte le fasi della vita: ognuno di noi è stato una volta bambino e ciascuno ha avuto lo stesso bisogno di autonomia e di relazione. Dimenticare questo, impedendo il perpetuarsi dell’esistenza di una generazione di bambini che giocano in giardino liberi e felici, equivale a rinnegare la propria stessa infanzia. Non potremo mai supportare le nuove generazioni a creare un mondo diverso se continueremo a negare loro i bisogni che per noi sono stati vitali. E se qualcuno avesse l’assurda tentazione di nascondersi dietro all’evergreen “erano altri tempi” la risposta è una: certamente. Il tempo ha un’intrinseca dimensione diacronica che fa sì che il suo scorrere non lo riproduca mai uguale a se stesso. Ma non è un buon motivo per permettere che i tempi futuri siano meno umani ed empatici di quelli passati.