Possiamo parlare del “caso” Saman oppure parlare di come si parla del “caso” Saman.

Parlare del caso è evidentemente difficile. Le notizie, con le indagini in corso, non possono essere che parziali e limitate. I “fatti certi” sono tutto sommato pochissimi e l’unico, incontestabile, allo stato delle cose, è costituito dalla scomparsa della ragazza.

Quali altri ingredienti abbiamo?

Abbiamo: Una diciottenne, figlia di una famiglia immigrata, che, ad un certo punto, ha esplicitato un conflitto con la sua famiglia, “denunciandoli” (viene riportato questo termine, ma non sappiamo a quale azione specifica si riferisca) perché la vorrebbero forzare a contrarre un matrimonio che non desidera e che, pare per questa ragione, sia stata ospitata da una comunità protetta.

Abbiamo: Una famiglia pakistana, musulmana, con un approccio fondamentalista alla fede.

Abbiamo: Zii, cugini, uomini descritti come brutali e credenti fondamentalisti.

Leggendo molti degli articoli proposti dalla stampa, sembra che il problema principale, il sistema di spiegazione al quale sia possibile fare riferimento per tentare di “comprendere” quanto possa essere accaduto, siano proprio queste ultime informazioni: Pakistani, musulmani, fondamentalisti.

In un articolo è scritto: “Ammazzata nel Paese dove voleva vivere libera. Libera di vestirsi come voleva, di amare un ragazzo, suo connazionale, scelto da lei. Di autodeterminarsi”. 

Riflettiamo: si tratta però dello stesso paese, dello stesso occidente, dove, dall’inizio dell’anno ad oggi, sono state uccise 45 donne, fra le quali: Laura, Sharon, Victoria, Soccorsa, Edith, Lorenza, Ornella, Ylenia, Blessing. Uccise da mariti o ex compagni, parenti o conoscenti. Italiani o stranieri, di diverse religioni, ma con una caratteristica in comune: uomini. Se il corpo di Saman sarà ritrovato, avrà il numero 46 e non sarà, con tanta fatale quanto certa probabilità, l’ultimo dell’anno.

Riflettiamo ancora: appare un po’ semplicistico nonché profondamente improprio sul piano logico trovare di volta in volta motivazioni specifiche a un fenomeno fin troppo sistematico. Certo, ci sono comunità umane, culture familiari, dalle cattolicissime Irlanda, Polonia o Ungheria fino alle musulmane sponde del mediterraneo dove la differenziazione di genere e anche la discriminazione basata sul genere limita l’accesso ai diritti delle donne. Ma per quando disdicevole e anche un po’ rivoltante, questa discriminazione non legittima di per sé il femminicidio! Certo, un certo lassismo culturale e una debolezza normativa possono contribuire, se non proprio legittimare, ad almeno concedere una certa tolleranza nei confronti della violenza contro le donne. A questo proposito sarebbe forse opportuno riflettere sul fatto che la Polonia ha proclamato la sua intenzione di “ritirarsi” dalla Convenzione di Istanbul e che la stessa convenzione non è ancora stata sottoscritta da sei paesi europei e nemmeno dalla Gran Bretagna.

 … a proposito di debolezza normativa. Vorrei sottolineare il fatto che stiamo parlando di “uscire da” o di “non sottoscrivere” un trattato che sancisce diritti, non un accordo commerciale …

La storia di Saman ci richiama però alla nostra responsabilità professionale oltre che sociale. Non ho risposte, ma vorrei condividere alcuni interrogativi.

  1. Sappiamo (è uno dei “fatti certi”) che Saman è stata ospite di una comunità protetta. Ora, è vero che ha 18 anni, ma se è stata accolta significa che le motivazioni sono state ritenute “rilevanti”, vale a dire che la dignità, i diritti e la salvezza della ragazza erano seriamente compromessi dalla sua situazione familiare. Perché la ragazza non era più in comunità?
  2. Impariamo dalla stampa, che la madre avrebbe inviato un sms “trappola” (così titola la stampa), scrivendo “Torna, faremo come ci dirai tu”. Dobbiamo dedurre che la ragazza abbia lasciato la comunità a seguito di questo messaggio?
  3. A questo punto non posso non chiedermi cosa sia successo nella comunità e con gli operatori/trici. Intendo, se il punto primo è “vero”, come è possibile che un solo sms abbia portato la ragazza a rientrare in un contesto familiare così minaccioso? Cosa è stato fatto per aiutare la ragazza a gestire la probabile e inevitabile ambivalenza tra “volere vivere come vuole- essere-”, ma non perdere l’affetto, la sicurezza dei suoi legami familiari- dovere essere?
  4. Quali interventi sono stati rivolti alla famiglia? Chi si è posto come mediatore culturale (qui si che sarebbero utili!) tra la famiglia e la ragazza?
  5. In breve, cosa è stato fatto, oltre ad ospitarla, per garantire a medio e lungo termine il divenire della ragazza e ricomporre, dove possibile, i legami con la famiglia. Oppure, se alla prova dei fatti non fosse stato possibile ricomporli, cosa è stato fatto per aiutare la ragazza a fare una scelta di vita per lei autentica per quanto inevitabilmente dolora?

Non ho risposte, ma le vorrei avere. Dobbiamo interrogarci seriamente quando i nostri interventi falliscono, non ce lo possiamo permettere. La posta in gioco è sempre alta, questa volta è stata probabilmente la vita di Saman…io non dormirei sonni tranquilli a prescindere dalla provenienza e dalla cultura dalla sua famiglia.

Nadia Monacelli, docente del Master