Fuori dalla porta della mia casa sventola la bandiera mapuche. Qui dove vivo viene considerato un atto di ribellione. Per questo la mia vita non è facile. Io lo considero un modo per affermare la mia identità, la mia dignità. Tutti sanno chi sono e dove vivo. Molte donne vengono a cercarmi. Alcune vogliono solo parlare, nella nostra lingua, quella che parlavano i nostri genitori ed i nostri nonni. Altre vengono a pregare; le anime dei nostri spiriti non sono contemplate nei moderni santuari di alcuna confessione religiosa. Qualche giovane madre mi porta qui, di nascosto, i propri figli perché io insegni loro la tradizione antica. Non vogliono che vada persa, non vogliono che il passato venga dimenticato. Molte donne mi chiedono di aiutarle a partorire. Non che manchino gli ospedali in Argentina, né le ostetriche. Le donne di cui mi occupo mi chiedono di dare alla luce i loro bambini secondo la tradizione mapuche e mi chiedono di aiutarle a metterli al mondo senza sentirsi delle zotiche ignoranti. Vogliono vivere il momento più bello della loro vita con dignità, senza essere considerate ai margini della civiltà. Tengo loro la mano, sussurro le preghiere in una lingua che, per loro, sa di casa. I loro bambini vengono accolti con la benedizione che noi donne mapuche conosciamo molto bene, perché è la stessa con la quale noi siamo venute al mondo. Vi sono poi le bambine. Quelle, invece, non le posso aiutare. Raccolgo le loro lacrime, la loro disperazione, la loro frustrazione per non essere riuscite a sottrarsi a quella che la giustizia liquida come una “pratica culturale”. I loro occhi attanagliano ogni volta la parte più profonda della mia anima mentre mi raccontano le violenze, i soprusi di quegli uomini senza dignità che imprimono nelle loro menti il marchio dell’ignominia. Lo fanno perché sono maschi, perché si ritengono superiori a qualsiasi donna, soprattutto se è un’indigena, un essere senza storia, senza radici, che si è provveduto già da tempo a cancellare dalla faccia della terra. Del resto, come può soffrire chi non è considerato nemmeno un essere umano? Tutto ciò che posso fare è assicurare loro un’assistenza legale a fondo perduto, sapendo già che perderemo la causa. Che quelle bambine, diventate donne contro la loro volontà, verranno calpestate ancora una volta. Sventola fiera la bandiera mapuche fuori dalla mia porta. La mia casa è diventata la base per un movimento che parte dal basso. Molte persone vengono qui cercando aiuto, ma trovano molto di più. Trovano il coraggio per rivendicare i loro diritti, per guardare a testa alta verso un domani che cominciano a credere, prima o poi, arriverà. Ogni persona che incontro ha la sua storia, il suo lutto da elaborare, il suo posto nel mondo da trovare. Qui si sentono al sicuro. Si sbagliano, ma mi è di aiuto che lo credano. La polizia sorveglia la mia casa da molto tempo, aspettano solo un pretesto per mettermi dentro. Io cerco di non fornire loro alcun alibi per farmi del male ma, si sa, in Argentina il confine tra lecito ed illecito è ancora molto sottile. La nostra storia ce lo insegna. Quella bandiera che sventola fiera ricorda un passato che la maggior parte della gente, i dominatori, vogliono dimenticare. Comprano con il denaro il nostro silenzio. Si ammantano di finta compassione, ma spezzano le nostre radici, cancellano la nostra storia, si comportano come se gli indigeni non fossero mai esistiti. Così si preparano un alibi per poterci massacrare; si convincono che siamo un popolo barbaro, pieno di tradizioni inutili, di superstizioni da caccia alle streghe, di rituali che non appartengono alla civiltà. Così facendo credono di affossarci, di convincerci ad essere diversi da quelli che siamo. E invece, nonostante tutto, noi ci siamo. Siamo per la maggior parte donne, alcune di noi madri, ognuna figlia di una stirpe, di una famiglia che, nella maggior parte dei casi, non esiste più. Siamo donne alla mercè di uomini che non vogliono altro che un corpo da violare per sentirsi così più virili, più giusti. Siamo madri di figli mai nati, voci che si spezzano in gola quando vediamo il nostro destino inaridito dal pregiudizio di uomini soggiogati dal male assoluto. Siamo donne che vogliono giustizia, che rivendicano dignità, che non si stancheranno mai di affermare i propri diritti. Ogni tanto qualcuna cede, schiacciata dal peso dei sensi di colpa, soffocata da un dolore che sembra non passare mai. Anche per loro sventola la mia bandiera. Serve a ricordarci che la speranza ci mantiene vive. Che siamo guerriere. Che la vittoria non è lontana.

Monica Betti, docente del Master

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