Stanislav chiude la porta dell’ambulatorio. Il suo turno sarebbe terminato quattro ore fa, ma sono ormai molti anni che non fa più caso agli orari di lavoro. Appoggia la mano sulla maniglia della porta, vorrebbe tornare a casa ma qualcosa lo trattiene ancora. Il volto di quel bambino, uno dei tanti casi disperati che bussano alla porta del suo ambulatorio. Ma questo è un caso particolare. Il bambino ha solo sei anni. Ed un cancro ad uno stadio avanzato. Ogni volta che apre una cartella clinica vorrebbe che ad aprirsi fossero le porte di una medicina che cura, che salva. E invece, ogni volta, ad aprirsi sono di nuovo le porte dell’inferno. Chiude gli occhi e rivede l’orrore senza fine di una strage che ha cambiato per sempre la sua esistenza e quella del suo Paese. Rivede il dolore del disastro nucleare, le donne, gli uomini ed i bambini dilaniati dalle radiazioni. Nessuno della sua famiglia è sopravvissuto, nemmeno sua figlia, che aveva solo otto anni. Lui era un giovane medico. Aveva studiato per salvare vite. Non era riuscito a salvare quella di sua moglie e di sua figlia, morte una dopo l’altra qualche anno dopo la strage nucleare. Le radiazioni avevano provocato conseguenze devastanti nei corpi di molte persone giovani. Lui era un sopravvissuto. Sembrava una triste ironia del destino. Proprio lui che non aveva potuto salvare coloro che amava di più al mondo, ora sopravviveva passando notti e giorni interi chiusi in quell’angusto ambulatorio a tentare l’impossibile. La voce si era sparsa: venivano da lui da ogni parte del Paese. Non perché fosse in grado di salvare vite umane. Ma perché, nonostante tutto, non aveva perso la speranza. Serviva ben altro che medicine, benché fossero necessarie. Un’opera di bonifica sostanziale. Il terreno era inquinato ancora, dopo oltre trent’anni. Ed avrebbe continuato ad esserlo. Persino l’acqua e gli animali. I frutti della terra erano inquinati, lo stesso bestiame che vi attingeva sostentamento. Gli uomini e le donne si ammalavano e così anche i bambini. Il latte era contaminato, il formaggio, le uova. I governi tendono a dimenticare, le persone no. È facile trincerarsi dietro la coltre del tempo, asserendo che oggi di cancro si muore. Certamente. E in Ucraina più che in altri posti. Certo che si muore di cancro. L’età media della popolazione si è abbassata a 67 anni. Secondo i calcoli del governo nemmeno a lui restano più molti anni da vivere. Riapre quella cartella clinica che ha già aperto e richiuso impotente almeno mille volte in quella giornata. Rivede gli occhi di quel bambino. Potrebbe essere sua figlia, la sua Sofie. Proverà a chiedere un consulto, anche se sa già che cosa gli risponderanno. Solo un pazzo consiglierebbe la chemioterapia in un caso del genere. Le medicine costano care e non possono essere sottratte a chi ha una speranza di salvarsi. E quel bambino non ce l’ha. Nella migliore delle ipotesi la chemioterapia gli allungherebbe la vita di sette, otto mesi. Ad essere fortunati un anno. E poi? E poi solo Dio lo sa. Pensa alla sua Sofie. Avrebbe dato tutto ciò che aveva per poterla avere con sé qualche mese in più. Aveva un collega medico ebreo. Lui asseriva sempre che un’ora di vita è vita. Lo sapeva bene lui. Anche se per motivi diversi, anche parte della sua famiglia era stata distrutta, molti anni prima. Per procurarsi i farmaci chemioterapici la trafila era infinita. Bisognava dichiarare che erano assolutamente essenziali a salvare la vita di un paziente. Chi si assumeva questa responsabilità? Ormai più nessuno. Ma lui sì. A convincerlo non erano le diagnosi o le ipotesi di guarigione. A convincerlo erano gli occhi delle persone che incontrava. In molti casi aveva pagato personalmente alcune ammende. In fondo, è sempre e solo una questione di soldi. Tutto ha un prezzo, persino la vita dei bambini. Peccato non aver potuto pagare il prezzo di Anka e della sua Sofie. Ma esistevano altre vite che avevano bisogno di lui e della sua tenacia.  Al diavolo il consulto. L’indomani avrebbe fatto ricoverare quel bambino. E avrebbe richiesto i farmaci chemioterapici necessari. Avrebbe seguito personalmente il suo caso. Avrebbe preso per mano i suoi genitori, li avrebbe guidati nei mesi più duri della loro vita. E poi chissà. Aveva assistito anche a dei veri e propri miracoli. A volte qualche bambino si salvava, magari si sarebbe salvato anche lui. Le cure erano fondamentali. E prima si somministravano e con più probabilità i bambini guarivano. Ma non era solo questo. A volte aveva l’impressione che il fatto stesso di dare un’opportunità a quelle vite avesse di per sé un potere salvifico. Per questo quelle famiglie piene di dolore venivano da lui. Perché restituisse loro una speranza, la consapevolezza che anche quella vita era importante. Oltre le statistiche, i giochi di potere, i ricordi di una notte che il tempo pareva cancellare in qualunque mente tranne la loro. Non si trattava solo di salvare loro la vita. Si trattava di salvare la speranza, l’ultimo baluardo sopravvissuto all’inferno di molti anni prima.