Viola chiude il libro. Domani c’è l’interrogazione di storia. Cerca di ripetere nella sua mente l’ennesima lezione imparata a menadito. Stare molto attenta, non perdere nemmeno una parola della professoressa, talvolta registrare le lezioni senza farsi vedere: tutto questo è diventata ormai la normalità per lei. Non ha letto nemmeno una parola del libro. Da anni ormai non lo fa. I suoi libri sono sottolineati, evidenziati. Ma ha imparato anche a fare questo nel modo corretto. Ha imparato a riconoscere le caratteristiche dei paragrafi, a seguire le parole scritte in corsivo e grassetto. Così nessuno si può accorgere che non ha letto nemmeno un rigo. Si abbandona sulla scrivania. E’ così stanca che per un momento pensa di lasciarsi andare, di raccontare tutto, di smetterla con questo castello di bugie. Guarda l’orologio: sono le 2 di notte. Ormai ci ha fatto il callo. Ogni giorno le serve tutto il pomeriggio e buona parte della notte per memorizzare, riepilogare, sbobinare tutto quello che le serve per prendere un buon voto ai compiti e alle interrogazioni. Ma di anno in anno il carico aumenta e le ore del giorno sembrano davvero non bastare più. Per un attimo torna con la mente a quando tutto questo è cominciato. Torna con la mente alla scuola elementare, quando aveva imparato con una fatica enorme a leggere. Poi i testi erano diventati più lunghi e complessi, si erano aggiunte le materie di studio. Ben presto le era diventato chiaro che non avrebbe più potuto farcela, era troppo il tempo che impiegava a decifrare il testo. Alla fine non le rimaneva in testa niente. Era stato in quel momento che aveva adottato dei piccoli espedienti. Si faceva leggere il testo da un amico, da sua madre, da suo fratello. E lei cercava di memorizzare fin dal primo ascolto. All’inizio sembrava facile.  Anche i voti erano migliorati. Gli insegnanti si erano resi conto che se interrogata rispondeva brillantemente. Negli scritti faceva più fatica, ma qual era il problema? Ogni alunno ha le sue caratteristiche. Così aveva abilmente continuato a bluffare, fino alla fine della scuola elementare e poi alla scuola media. Poi aveva scelto il liceo, consigliato dai sui insegnanti. Ed è proprio al liceo che quel meraviglioso castello di carte cominciava pericolosamente a vacillare. Non ne poteva più. Aveva pensato spesso a cosa sarebbe successo se per una volta non fosse stata attenta. Quando poi si ammalava era un vero dramma. Non poteva certo chiedere ad altri di registrarle le lezioni. E farsi passare gli appunti non sarebbe servito a niente. I genitori e suo fratello avevano ben altro da fare che leggerle le molte, troppe pagine da studiare. Si prese la testa tra le mani e scoppiò in un pianto disperato. Viola arrivò al servizio di neuropsichiatria infantile così: stanca, demotivata, segnalata per un’apparente depressione adolescenziale. Alla psicologa raccontò che era stanca di studiare, che aveva sbagliato scuola, che forse non voleva andarci più. Una valutazione delle abilità scolastiche, giusto per escludere una possibile difficoltà specifica. E ben presto l’esito. Dislessia. Quello era il motivo di tutte le fatiche di Viola. Quando arrivò al Servizio, aveva passato molti anni ad evitare il problema, a compensare con ogni strategia possibile la sua difficoltà. Viola era una ragazza estremamente intelligente. Aveva imparato in maniera ineccepibile a spostare l’attenzione di tutti gli adulti dal suo reale problema. Aveva imparato cosa le serviva sapere e saper fare per superare le prove, riducendo tutte le materie di studio a mere prestazioni. Ma il tempo che le serviva per fare tutto questo era diventato enorme, insostenibile per una ragazza tanto giovane. E così, quando le ore di studio erano diventate troppo aveva cominciato ad accusare stanchezza, perdita del senso di autoefficacia, insonnia, depressione. Non è stato facile arrivare a questa diagnosi, farla accettare a lei ed ai suoi familiari. Tutti loro hanno dovuto essere accompagnati in un percorso di accettazione, di sollevamento da un’inevitabile senso di colpa per non aver visto, non aver compreso. La Legge 170/10 ha appena compiuto dieci anni. Dieci anni di studio, di sensibilizzazione, di accompagnamento di studenti e docenti. A dieci anni di distanza, di dislessia si parla a volte ancora troppo poco e non sempre nel modo giusto. La storia di Viola è unica nella mia esperienza professionale. Molto più frequenti sono i casi di insuccesso scolastico, di fatica ordinaria, di segnalazioni non sempre precoci. Ma la storia di Viola rimane sempre viva nella mia mente. Perché mi ricorda il senso di inadeguatezza, la paura di non farcela, la vergogna che molti bambini e ragazzi con dislessia provano prima di arrivare alla diagnosi. A dire la verità, alcuni la provano anche dopo e per questo non accettano la certificazione, o continuano a rifiutarsi di utilizzare gli strumenti compensativi e dispensativi. La storia di Viola e di questi ragazzi mi ricorda che la scuola deve essere questo: accoglienza delle diversità, sensibilità, capacità di individuare il percorso giusto per tutti e per ciascuno. La storia di Viola mi ricorda che quando la sofferenza diventa grande questi ragazzi rischiano tutto. Per questo il compito della scuola è fondamentale. Per comprendere, accogliere, accompagnare, salvare.

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