“La guerra piove anche sui bambini?”

Mi chiede Martino che ha quattro anni e che vive lontano dagli scenari cruenti dell’Ucraina. 

Ogni momento del giorno, al telegiornale, nelle interviste dei vari esperti, nelle rivendicazioni incaute dei politici, nelle forse altrettanto fuorvianti rassicurazioni dei presunti esperti siamo bombardati da messaggi che rendono ancora più eclatante la presenta di questo ospite imprevisto, roboante, pericoloso.

Come parlare ai bambini di quanto sta accadendo in Ucraina? Come pensare, per noi che studiano l’educazione, ai piccoli che vivono sotto un cielo dal quale piovono le bombe? Ma soprattutto: come possiamo spiegare ai nostri bambini o a quelli che fuggono dagli scenari di guerra, il senso di quanto sta accadendo, se questo senso non solo ci è in gran parte oscuro ma si confronta con le nostre stesse paure più o meno dichiarate?

La paura, lo vediamo ogni giorno sulla nostra televisione, rende aggressivi. Questa guerra ha già confezionato un mostro che veicola su di sé il nostro odio.

La violenza, anche solo verbale, dà sfogo ad un sentimento di fastidio, di impotenza, di rancore per quello che sta accadendo. Trovare una spiegazione e più ancora un colpevole è un impulso, prima ancora che un desiderio, di reazione alle nostre paure.

Anche i bambini e soprattutto i bambini in età prescolare reagiscono alla paura con aggressività. Anche i piccoli sui quali piove la guerra reagiranno al terrore con l’odio.

E infatti, spesso tale reazione è rivolta contro l’altro, il cattivo, che li fa soffrire, il mostro occulto vuole ucciderli e uccidere gli adulti che sono la loro sicurezza.  Altre volte, peggio, l’odio si volge contro sé stessi. È questa una paura molto comune che si manifesta nel senso di colpa per aver meritato – anche non sapendo come e perché – la minaccia incombente di un male che cade dal cielo inspiegabile, inconcepibile, imprevisto. L’allarme derivante è appunto costituito dalla paura. Vorrei parlare soprattutto di questa paura perché, da questa, derivano, sia pure con differenti sfumature, la gran parte delle altre e perché, nella mia frequentazione con i bambini in età prescolare, si è rivelata la più frequente.

Allora, come accogliere i piccoli profughi?

Il mio suggerimento non è di sminuire le paure con la loro carica patogena di malessere, tantomeno di negarne l’esistenza, bensì è in un processo di coscientizzazione che porta il piccolo prima a dar voce alle proprie emozioni, a identificarle e ad attribuire loro un nome. Poi, a trovare, nella relazione con gli altri, il seme fecondo sia dell’accoglimento che della solidarietà. È nella relazione del piccolo con il suo nuovo e precario contesto di vita, la risposta a tutte le paure, comprese quelle dei grandi. Tutte le emozioni, anche quelle dolorose, rappresentano importanti ambienti di crescita se aiutano il bambino ad affrontare quei problemi che la sola ragione non può governare (Goleman, 1996).

La mia proposta consiste quindi nell’elaborare chiavi di lettura educative al fenomeno inevitabile del disorientamento emotivo, con lo scopo di predisporne risposte concrete.

I bambini, come tutti noi, interpretano gli eventi alla luce delle proprie esperienze pregresse, le quali tuttavia, più che in noi, convivono con un immaginario e un fantastico popolato da mostri, draghi, super eroi, streghe, fate e oggetti magici. È qui credo dobbiamo cercare gli strumenti ermeneutici per dare un nome alla paura nei confronti della guerra. L’obiettivo è motivare i bambini a verbalizzare il sentimento della paura legato al tema della catastrofe che ha colpito l’Ucraina. Tale attività è particolarmente importante in una fase d’età durante la quale la competenza linguistica e semantica è ancora insufficiente a descrivere la complessità di emozioni e sentimenti (Piaget, 1955). Non dobbiamo insegnare a non avere paura, al contrario, credo che insieme ai piccoli, dobbiamo apprendere ad avere paura, perché la sua negazione non ha mai risolto nessuno dei problemi correlati con questo sentimento.

Ecco, per prima cosa, possiamo aiutare i piccoli che fuggono dalla guerra a passare dall’emozione al sentimento, ovvero alla consapevolezza del mostro che si agita nei loro pensieri: identificarlo, conoscerlo e governarlo.

Ogni bambino, vive in maniera più o meno confusa l’esperienza emozionale: fatica a riconoscerla e definirla, a maggior ragione quando questa esperienza deve interpretare una guerra. La confusione oltre a generare un ulteriore disagio affettivo può bloccare la paura e l’odio che ne deriva in schemi cognitivi di negazione o di resistenza nei confronti del. Nei bambini e soprattutto nei bambini piccoli, le paure assumono più facilmente l’immagine di un mostro, un drago, un fantasma, o peggio un orrore senza volto. Solo negli anni successivi lo sviluppo consentirà una articolazione più complessa e più chiaramente declinata della paura.

Questa guerra ci trova impreparati anche in questo, eppure, al male, nelle sue varie forme, dovremmo essere abituati: guerre, catastrofi, calamità, crimini sono all’ordine del giorno sui nostri quotidiani. Quello che ci sconcerta è la spettacolarizzazione mediatica della guerra. Una esibizione che dà voce alla nostra stessa infelicità. Quando guardiamo le immagini del telegiornale la sofferenza ci prende all’improvviso, e forse è per questo motivo che ne occultiamo la presenza agli occhi dei bambini. “Lo spirito moderno – scrive Bauman (2009, p. 62) – è nato all’insegna della ricerca della felicità – più felicità, sempre più felicità. Ogni membro della società liquido-moderna è istruito, addestrato e preparato a cercare la felicità individuale con mezzi e sforzi individuali”. Ai bambini non si parla del dolore: è il dogma pedagogico del nostro tempo. Non si parla del dolore in famiglia, si cerca di non menzionarlo, lo si nasconde, lo si evita a tutti i costi. Non si parla del dolore a scuola, si anestetizza con il linguaggio della formalizzazione disciplinare. I nostri bambini crescono nella logica che il dolore sia, per loro, un’offesa imprevista, fastidiosa, irreale come un video game, oppure incombente come una colpa oscura. Nei confronti del male e del dolore “siamo stati bene addestrati – chiarisce ancora Bauman (2009, p. 81) – a distogliere lo sguardo e a tapparci le orecchie”.

Forse pensiamo, ingenuamente, che questo occultamento del male con il quale crediamo di preservare l’innocenza di bambini e ragazzi possa essere una delle cause del disorientamento emotivo di cui sembrano soffrire oggi molti giovani: un malessere emozionale che ha ben analizzato Goleman (1996) nelle difficoltà di autocontrollo, nei disturbi del comportamento, nell’incremento del bullismo, come nel considerevole aumento di problemi relazionali (Buenasayag M., Shmit G., 2004). Credo che sia proprio questa negazione a rendere ancora più difficile il nostro compito di spiegare la paura generata dalla guerra in atto.

In età prescolare, fra i tre e i cinque anni, i bambini hanno già una ricca vita fantastica animata da creature e situazioni immaginarie. È con questo immaginario che possiamo dialogare perché lì ci sono le immagini interpretative che il bambino utilizza nell’elaborare risposte ai problemi e schemi di azione. La risposta ad un terrore oscuro può essere di tipo anticipatorio, immaginando la catastrofe annunciata dalla paura stessa, soffrendo, in anteprima, della propria inevitabile fragilità. Ed è qui che dobbiamo intervenire con il nostro racconto, per spiegare la paura e aiutare il piccolo ad interpretare un evento oscuro e pauroso come la guerra che cade sui bambini dell’Ucraina.

Quello che dobbiamo fare con i bambini scappati alla guerra è portare in superficie un’emozione difficile, come è la paura, per farla giungere al livello di sentimento, cioè di una consapevolezza.

Le emozioni –siano o meno consapevoli – svolgono un effetto prolungato nel tempo se si volgono in sentimento e giungono alla consapevolezza. Vale a dire che solo con la chiara percezione di un senso del sé il piccolo giunge alla consapevolezza dei sentimenti che prova. Per questo motivo, e citando una bella espressione di Damasio (2003, p. 23), credo che il sentimento è l’esperienza mentale dell’emozione. Aiutare i bambini a riconoscere, dar voce e attribuire un nome alla paura della guerra in atto, li aiuta nel processo di coscientizzazione del sé. Questa consapevolezza, sia pure ai primi stadi, aiuta a prendere decisioni che la aiuteranno a fronteggiare quella paura come altre che le sono collegate. È senso del sé. Secondo Damasio (2003, p. 18 e 17), la consapevolezza amplifica l’impatto di sentimenti ed emozioni nella mente. Di più, egli sostiene che è “la nostra prima autorizzazione a conoscere” e che di conseguenza ci “aiuta a perfezionare l’arte della vita”.

Il primo obiettivo dobbiamo porci è aiutare i bambini a verbalizzare prima la sensazione della paura, poi il suo sentimento profondo attraverso la descrizione delle emozioni collegate a quelle della guerra.

Sono convinta che sia molto importante educare i piccoli profughi ad intraprendere attività guidate di autoermeneusi, di riconoscimento in sé e negli altri di moti dell’animo, compresa la paura feroce della guerra, delle bombe che cadono, della morte dei genitori.

A questo fine la co-costruzione di significati nuovi rispetto a sé, e agli altri, può aiutare al superamento di difficoltà nella relazione con sé stessi, e con i pari.  In questo senso, l’educazione può aiutare questi bambini a costruire le chiavi di lettura del mondo, in una visione prospettica e relazionale che li colloca entro vincoli di significato esistenziali. Si tratta di accompagnare il progressivo ampliamento del suo spazio formativo verso la ricerca di nessi sociali, ma anche semantici, che siano innanzitutto solidali. Nodi significanti che li aiutino a costruire la sua identità entro una trama che la connette al mondo e agli altri.

Penso che una sapiente educazione emozionale favorisca la capacità di gestire sia i conflitti interni legati alla presenza della paura sia quelli relazionali, legati al timore della perdita, perché affina le competenze empatiche. Ecco quindi che occorre iniziare a conoscere le emozioni scatenate dalla guerra. In tal modo possiamo aiutare i bambini a sopportare le ansie, a conoscere la propria paura, a controllare l’insicurezza, l’ansia, a prevenire comportamenti aggressivi, a tollerare lo stress.

Ma tutto questo si riferisce ai bimbi che sono riusciti a fuggire. Le parole ci mancano quando pensiamo a quelli sui quali ancora piove la guerra.

Anita Gramigna, Professore Ordinario di Pedagogia Generale e Social, docente del Master

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Bibliografia

Bauman Z. (2009), Paura liquida, Bari, Laterza.

Benasayag M., Shmit G. (2004), trad. it., L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, Milano.

Damasio A. R. (2003), Emozione conoscenza, Milano, Adelphi.

Di Gregorio L., Genitori fate un passo indietro. Intuito educativo e capacità negativa per crescere i figli del nuovo millennio, Milano, Feltrinelli, 2018.

Goleman, D. (1996), Intelligenza emotiva: che cos’è e perché può renderci felici, Milano, Rizzoli.

Gottman J. Declaire J. (2015), Intelligenza emotiva per un figlio, Milano, BUR.

Juul J. (2015), Bambini con le spine. Affrontare rabbia, prepotenza o isolamento in modo costruttivo, Milano, ed. Urrà Feltrinelli, 2015.

LeDoux J. (1996), trad. it. Il cervello emotivo, all’origine delle emozioni, Baldini Castoldi Dalai, Milano.

Piaget J. (1955), Il linguaggio e il pensiero del fanciullo, Firenze, Editrice Universitaria.