Intervista a Luisa Piarulli,   Presidente nazionale Anpe (Associazione nazionale pedagogisti italiani), da Orizzonte scuola

 

Quali sono gli indicatori che possono aiutare i docenti a riconoscere un vero atto di bullismo?

“È necessario premettere che il docente di oggi deve affrontare criticità, complessità e problematicità diverse rispetto al passato e sono perciò necessarie nuove competenze che non sono le risorse intellettuali che si posseggono ma la capacità di mobilitarle (Fischer). Il docente osserva, coglie il non detto nell’ottica che “l’essenziale è invisibile agli occhi”, è il maestro d’orchestra che sa riconoscere la nota stonata da armonizzare con le altre. Solo in questo modo saprà “vedere”, cogliere e leggere i segnali dei corpi, i silenzi, le paure,interpretare le risposte comportamentali. Riconoscere un vero atto di bullismo richiede sensibilità, responsabilità, competenza di osservazione in opposizione alla superficialità e all’idea che “entro in classe, spiego, verifico/punisco, esco: terminata la lezione”.

L’alunno silenzioso, impaurito, che fa frequenti assenze, che non si espone, che è timoroso di sbagliare, che ha uno sguardo circospetto, che durante l’intervallo si isola, che ha comportamenti chiaramente identificatori (rosicchiarsi le unghie, non sorridere, avere uno sguardo preoccupato….) non è un alunno che “non disturba”! Osservarlo, avvicinarglisi, parlargli con delicatezza può aiutare l’insegnante a scoprire un’eventuale vittima di bullismo e individuare così il bullo, vittima a sua volta.

Comunicare con la famiglia e confrontarsi con essa (senza colpevolizzarla e demonizzarla) aiuta a mettere insieme pezzi di un puzzle emotivo e comportamentale dell’adolescente. Formare gruppi di peer educatotion è una formula vincente: tra pari è più semplice esprimersi, si possiede lo stesso codice. Sistemare una cassetta per la posta in un luogo “poco frequentato” della scuola, può essere utile a far emergere situazioni individuali complesse. Distinguere poi un atto di reale bullismo da semplici e se vogliamo naturali atti di prepotenza (che in adolescenza esprimono il bisogno di autoaffermazione, il riconoscimento dei limiti…), richiede sensibilità, capacità di osservazione da parte dell’adulto, dunque una formazione continua”.

Che cosa può fare la scuola? Quali percorsi educativi si sono rivelati finora più fruttuosi?

“La scuola potrebbe fare molto! Dico potrebbe, perché non sempre fa. Ci sono ottimi insegnanti: carismatici, empatici, appassionati e competenti. Tuttavia l’esperienza mi dice che manca qualcosa per operare efficacemente in situazioni di bullismo. Se individuato il bullo, solitamente si avvia un inevitabile procedimento sanzionatorio e punitivo, che è molto importante ma andrebbe affiancato dall’intervento educativo in parallelo per non esacerbare ulteriormente il bullo, il quale, travolto da rabbia o vendetta opererà fuori della scuola. Ricordiamo che il preoccupante fenomeno del cyberbullismo oggi purtroppo va crescendo visto che offre l’illusione dell’anonimato.

La scuola può attivare percorsi di mediazione, di peer education, di educazione alle life skills – per imparare la resilienza e l’assertività, la reciprocità e la responsabilità, l’empatia e la libertà. Attivare sportelli d’ascolto gestiti da esperti pedagogisti si rivela fondamentale e uno dei suoi compiti precipui è l’intervento su quelle classi (per esempio nel primo biennio della scuola secondaria di primo grado e secondo grado) che rivelano situazioni di evidente conflittualità. Ricordo che il conflitto -come scriveva Eraclito – “è padre di tutte le cose”, quindi non è una dimensione patologica dell’ordine sociale, ma una realtà consustanziale della vita stessa: va solo riorientato.

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Ed è compito dell’educazione. Da rimarcare la particolare efficacia della peer education: un pari può fare molto di più di un adulto, ma da costui va affiancato e diretto. Come a dire che la cabina di regia è formata da adulti capaci di comunicare, organizzare, dedicare tempo, guidare, regolare con autorevolezza. Infine creare percorsi didattici interdisciplinari può rivelarsi particolarmente efficace: in tal modo l’alunno sente la sinergia, coglie l’agire comune, acquisisce la consapevolezza che tutti gli adulti intorno a sé stanno lavorando per/con lui. È evidente, come ho già rilevato, l’importanza del coinvolgimento della famiglia che non va colpevolizzata, “guardata dall’alto” con distacco, ma coinvolta in modo solidaristico e professionale. Le famiglie spesso sono sole, prive di strumenti, fragili nell’educare e non chiedono altro se non un supporto”.

Quali sono gli errori che un docente non deve compiere in situazioni di criticità?

“Un docente non dovrebbe mai avanzare supposizioni che potrebbero tradursi in ipotesi arbitrarie; dovrebbe sospendere il giudizio, epochè, onde evitare etichette difficili da stemperare. Inoltre egli dovrebbe “avere e prendersi il tempo di”, recuperare insomma la dimensione di un tempo più diluito, meno nevrotico (incoraggiato purtroppo da ritmi istituzionali oberanti). Non è cosa facile anche perché va considerato che ogni educatore porta con sé la propria storia che può essere costellata di contenuti inconsci tali da indurre reazioni in contrasto con l’autentico agire educativo.

È fondamentale chiedere sostegno, confrontarsi, liberarsi dal senso di onnipotenza (spesso indotto dal timore di apparire poco competenti), controllare e orientare positivamente le proprie emozioni (ricordiamo: siamo un modello! E il bullo attiva comportamenti di voluta trasgressione e provocazione! È il suo personale modo di richiedere attenzioni e molto probabilmente di ricevere anche un “no”). Il contagio emotivo rappresenta il pericolo in cui può incorrere un consiglio di classe riunito ad hoc, pertanto è sempre bene rivolgersi ad un esperto dell’educazione per superare il rischio della patologizzazione e per offrire strumenti e metodologie di intervento”.

Parliamo della funzione dei viaggi di istruzione come strumento per il recupero di abilità sociali in situazioni di bullismo. In che senso? Molti docenti temono, invece, il contrario…

“Purtroppo i viaggi d’istruzione si stanno tramutando in sparute occasioni di educazione essendo la scuola tempestata di circolari e comunicazioni che intimoriscono i docenti (giustamente), che ancora una volta si vivono “abbandonati”. Il viaggio d’istruzione, se concordato con la classe, se preparato nell’ottica di una piacevole attività culturale, didattico-educativa, potrebbe offrire sostanziali occasioni di socializzazione positiva, di collaborazione e solidarietà, di rispetto e di reciprocità. Si tratta di un’occasione che permette, in un contesto avulso dai banchi di scuola, la scoperta di simpatie, amicizie, considerazioni.

Ma nulla va lasciato al caso. Sarebbe bello poter preparare insieme il percorso, le tappe, le attività, evidenziare le potenzialità differenti di ciascun alunno/a, offrire a ciascuno il ruolo di protagonismo, affidando compiti precisi. Al ritorno a scuola, la narrazione e la documentazione di fatti ma soprattutto di emozioni (una sorta di diario di viaggio), può rivelarsi una buona modalità di lavoro educativo e disciplinare. Anche in questo caso va modificato il modo di concepire la scuola: la preparazione di un viaggio d’istruzione rappresenta un’attività didattica non avulsa dai programmi”.

Secondo lei l’emergenza bullismo oggi è davvero più forte rispetto a un decennio o ventennio fa? Per usare le sue stesse parole, “esistono adolescenti di ieri e di oggi”? E genitori di ieri e di oggi?

“Purtroppo sì, oggi il bullismo è emergenza non tanto perché siano cambiati i ragazzi, ma perché sono cambiati gli adulti. I genitori di oggi sono quegli adolescenti che hanno subito dei soprusi, che hanno sofferto, che hanno anche vissuto dei traumi, che hanno fatto delle rinunce, ma che avevano genitori diversi, i quali molto probabilmente non sapevano distinguere tra autoritarismo e autorevolezza, ma erano animati dalla fermezza e dalla capacità di scelta. Erano famiglie numerose i cui genitori non concentravano narcisisticamente attenzioni e aspettative sul figlio unico, ma dovevano necessariamente distribuirle. I genitori di oggi – troppo concentrati su se stessi – pensano che dare, concedere, spianare la strada per evitare ogni possibile frustrazione ai figli, mettersi alla pari, fare confidenze, diventare loro amici, creare complicità, sia la strada alternativa al dolore da essi stessi sperimentato (ma che li ha “attrezzati” per l’età adulta).

Gli adulti di oggi non conoscono le implicazioni positive del conflitto, anzi lo temono; quelle di ieri sì, pur non sapendo definirlo. Invece esso è la stazione inevitabile ed efficace per “entrare nel mondo” e so-stare nel conflitto (Daniele Novara). I giovani, dall’altra parte non sono capaci di scegliere la libertà non conoscendone i confini e i limiti vista l’assenza o l’evanescenza del padre, ovvero dell’istituzione. Anche i riti di passaggio oggi sono celebrati con noncuranza e appaiono privi di valore e scontati (Charmet). Per entrare nel mondo adulto (ma quale?) basta un cellulare ultimo modello”.

Quali sono le risorse del bullo da cui ripartire? Perché si parla di intervento sistemico?

“Il bullismo è sempre la risposta a una società incapace di riconoscere e interferire positivamente nel coacervo di tensioni che animano i giovani, vittime di una cultura spesso alienante, massificata, omogeneizzata, liquida. Il “bullo” infatti è colui/colei che sperimenta la ribellione, la trasgressione, risposte a un tessuto socio-culturale spesso incomprensibile e disorientante; gli atti di bullismo esprimono il bisogno di autoaffermazione, di ascolto, di appropriazione del proprio spazio vitale, del proprio essere Persona. Come a dire che il bullo si è creato “il personaggio” (Lèvinas) che non è il volto. Il volto “non è visto” se non s’impara o si accetta di vederlo. Cosicché se il bullo non individua modelli positivi intorno a sé, provocatoriamente li autopropone.

La scuola e la famiglia rappresentano le uniche istituzioni in grado di orientare, indirizzare, gestire gli impulsi, indicare la via, dare forma a ciò che è imbozzolato, ovvero l’identità. Modelli, ecco, mancano i modelli e sono scomparsi anche i riti di passaggio. Imperversano le immagini che hanno creato il fenomeno che il sociologo Lorenzo Fischer definisce analfabetismo dell’immagine. La scuola, nel caos epistemologico odierno, può e deve intervenire per raccogliere e dare forma al caos inevitabile, all’energia, alla forza, a volte alla disperazione che muovono l’adolescente. È cambiata la società, è cambiato il tempo, s’impongono nuovi modi di essere e concepire la scuola, che non può esimersi dal compito di educare, molto più di ieri. E può farlo solo creando rapporti, comunicazioni, relazioni, con tutto ciò che ruota intorno all’educando.

In tal senso l’intervento è necessariamente sistemico. Mi rendo conto che il lettore si sentirà ancora una volta delegato, oberato, appensantito e potrà provare un senso di profonda frustrazione e mi pare di sentire espressioni come “ma io non sono uno psicologo!”. Intanto non è necessario fare dello psicologismo, ma viversi pedagogicamente, consapevoli di rivestire un ruolo sostanziale nella costruzione di identità in fieri (la pedagogia è la scienza dell’educazione e della formazione). Si tratta di un nuovo o forse ritrovato modo di appassionarsi a questa professione, che va “sentita”, vissuta, amata. Il resto vien da sé. Qui sta il segreto per poter leggere i volti dei nostri allievi che si donano a noi per scorgervi la vita autentica e per tramutare certa energia vitale in forza creativa”.

Sostenete un’idea che agli occhi di molti potrà sembrare provocatoria: “Meglio una classe in cui gli insegnanti e gli alunni entrano in crisi per “i bulli”, al posto di una classe in cui non si riesca ad esprimere la vitalità” . Vuole spiegarci dove risiede il valore pedagogico?

“Una classe dove non emergono “problemi”, dove gli alunni “sono tranquilli e non si sente mai volare una mosca durante le lezioni”, è una classe, ovvero un insieme di Persone, che tiene sotto chiave le emozioni, che non lascia trapelare inquietudini, domande, conflitti, pensieri: inevitabili onde di un mare ora quieto ora in tempesta. Purtroppo è una classe che sostanzialmente non ha fiducia nell’adulto, il quale non saprebbe coglierne positivamente la vitalità.

È una classe a cui non sono state offerte le condizioni per esprimere il caos che in età evolutiva è imprescindibile per intraprendere un buon percorso di crescita. Ho sempre pensato che un buon insegnante è colui/colei che, dal coacervo di complessità che agita naturalmente gli animi dei giovani, sa formare (dare forma) esseri umani consapevoli delle proprie fragilità e delle preziose potenzialità, che li considera capaci di migliorare e ne stimola i progressi.

 

Oggi v’è la consuetudine, peraltro istituzionalizzata, di contrassegnare, etichettare tutto ciò che sta ai margini della cosiddetta “normalità”, perché fa e crea paura ed è più semplice non vedere, non riconoscere. Meglio dunque tenere tutto sotto chiave! Il rischio è la visita neuropsichiatrica! L’hanno compreso le famiglie e i giovanissimi. Secondo il mio parere nella scuola di oggi manca la formazione pedagogica anche in ottimi e competenti docenti, espertissimi nei propri ambiti disciplinari. Ma il sapere passa attraverso la relazione, che implica la comprensione, la com-passione, l’educazione, ovvero il “tirar fuori” e “condurre per mano” la Persona come essere che appartiene al mondo. Ciò non esclude assolutamente l’autorevolezza, anzi. Mettere al centro dell’interesse pedagogico la persona, significa cercare in essa la possibilità, il punto di partenza per diventare tramite di incontro e apertura verso l’Altro (Buber). Così la Persona è essa stessa relazione.

L’annoso dilemma: scuola che istruisce o che educa? La scuola dovrebbe mantenere l’egemonia nel processo di educazione offrendo strumenti di analisi critica e modelli interpretativi. Partire da buoni modelli relazionali e comunicativi adulti, permette di trasmettere agli alunni anche lo scibile. Allora una buona classe è composta di persone che sanno dibattere, interloquire, ascoltare, confrontarsi, esprimersi, esporsi senza mascherare il conflitto.

L’insegnante, che sa leggere anche il “silenzio che fa brusio” (Lèvinas), è un direttore d’orchestra capace di dirigere, indicare, “stare dentro”, “sentire” ciò che muove ciascun discente e alla fine crea armonia. Il presupposto è l’educazione delle emozioni: dalla gioia alla rabbia, dal coraggio alla paura. Con la narrazione, per esempio, che restituisce dignità alla parola e al racconto di sé, possiamo essere certi di raggiungere traguardi inaspettati, anche per superare gradualmente l’analfabetismo emotivo dei giovani”.

 

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