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Il Tour continua con la documentazione degli interventi di comunità di una interessante organizzazione milanese: il CAF di Milano.

La storia

Il CAF Onlus di Milano nasce nel 1979 come “Centro di Aiuto al bambino maltrattato e alla famiglia in crisi” , con lo scopo specifico di lavorare su un piano terapeutico con le famiglie maltrattanti e i bambini maltrattati; negli anni ’80 il CAF si scinde dal CBM; inizialmente il CAF disponeva di una comunità di tipo familiare per minori gestita da una coppia di educatori e da volontari; successivamente sorgono le tre comunità per minori (3-12 anni) tutt’oggi operative, che inizialmente accoglievano bambini suddivisi per fasce d’età. Nel ‘84 il CAF si stabilisce presso un edificio che ospitava una scuola materna, dove attualmente risiedono le tre Comunità per minori. Negli anni il CAF attraversa periodi di grandi trasformazioni e cambiamenti: sul piano organizzativo l’assetto anteriore agli anni ’90 si caratterizzava per la presenza di tre psicoterapeute e tre assistenti sociali preposte a curare i rapporti con la rete e i genitori. Dopo un lungo lavoro di riorganizzazione interna dovuta a sollecitazioni di vario genere, il CAF ha assunto progressivamente la fisionomia attuale, costituendo un coordinamento delle equipe delle tre comunità e definendo un coordinatore, cioè una figura di raccordo che sovraintende e supervisiona le comunità e il lavoro quotidiano e che si interfaccia con il TbM, genitori e servizi sociali; il coordinamento, periodicamente si riunisce per riflettere sui problemi emergenti e per rendere comuni e omogenee le prospettive del lavoro tra le tre equipe delle tre comunità, per facilitare il lavoro degli educatori e conferire stabilità e integrazione ai diversi livelli di lavoro pedagogico, educativo e psicologico.
Negli anni nascono e si rinforzano servizi e progettualità connessi alle comunità residenziali in maniera diretta o indiretta, i principali dei quali sono: il progetto di Prevenzione per le famiglie a rischio di maltrattamento, che si realizza attraverso home visiting, il Servizio di Affido dell’Associazione CAF, il Servizio di supporto alla Famiglia, i percorsi di Formazione, le attività di promozione e sensibilizzazione sul territorio, oltre ai servizi di accoglienza dei minori. Nel 2007 il Caf-onlus ottiene la “Certificazione di qualità ISO 9001” e nel 2014, infine, nasce la Comunità Teen, una struttura residenziale inizialmente destinata all’accoglienza di 10 minori fra i 13 i 18 anni; nasce poi il Centro Diurno Teen Lab in seguito ad un progetto start-up, uno spazio pensato per gli adolescenti del territorio, e a breve è prevista l’apertura di un’ulteriore comunità residenziale dedicata agli adolescenti.

L’accoglienza

Le tre comunità 3-12 dell’associazione CAF ospitano in media 30 bambini l’anno; i bambini accolti sono presi in carico a seguito di un decreto del Tribunale per i minorenni che prevede l’allontanamento dal contesto familiare a causa di gravi trascuratezze o gravi difficoltà educative dei genitori; gravi patologie dei genitori e difficoltà nell’accudimento; grave conflittualità familiare e violenza assistita; sospetti di abuso sessuale o per fallimenti di interventi precedenti (affido, alto). Dal 2014 al 2016 si è registrato un aumento incisivo del numero di minori allontanati dal contesto familiare per gravi trascuratezze, in seguito al fallimento di altri interventi e, soprattutto, di minori che dopo la presa in carico residenziale rivelano abusi precedentemente sconosciuti ai servizi o al tribunale. I bambini accolti in comunità sono bambini che hanno ripetutamente “sentito la propria identità fisica e mentale minacciata e che hanno bisogno di un contesto sicuro, rassicurante, prevedibile”; sono bambini che su un piano psicologico presentano un’identità e una rappresentazione di sé e dell’altro scissa, frammentata; sono bambini spesso disorganizzati e non “regolati” affettivamente ed emotivamente e queste caratteristiche si riflettono sul piano comportamentale co repentini cambiamenti dall’ipoattività all’iperattività.
La comunità per gli adolescenti (13-18) accoglie, invece, 10 ragazzi e ragazze; il centro diurno 20, mentre la comunità di prossima apertura ne ospiterà 5; questi servizi di accoglienza sono rivolti ad un “target sempre più complesso”, che necessita di interventi su vari livelli, tra i quali: quelli di tipo neuropsichiatrico, psicologico, educativo e spesso sono ragazzi che hanno vissuto diverse esperienze di presa in carico residenziale, allontanamenti, separazioni e i fallimenti di altre tipologie di interventi (es. affidi, counseling individuale etc.). Come per i bambini, anche per gli adolescenti accolti in comunità si cerca di rispondere al loro bisogno di autoefficacia e nello specifico di incrementare la motivazione ad intraprendere un percorso di vita co-costruito con gli operatori, strutturato in modo tale da avvalorare le competenze e favorire le inclinazioni a cui i ragazzi tendono e i sogni cui aspirano.

Modello e obiettivi di lavoro nelle comunità

Il modello di lavoro delle comunità 3-12, “si è costruito in anni di sperimentazione” e si inscrive all’interno di una matrice di tipo relazionale/interpersonale; esso si caratterizza specificamente per l’integrazione tra l’approccio pedagogico e psicologico, un modello d’intervento che trova un fondamentale puntod’incontro e condivisione nelle equipe e realizzazione attraverso la quotidianità.
L’obiettivo principale del lavoro intrapreso in comunità è principalmente quello evitare l’istituzionalizzazione del minore, ossia di ridurre i tempi di permanenza in comunità, e di collocarlo nel minor tempo possibile in un contesto familiare, sia esso d’origine, affidatario, o adottivo, come sottolineato dalla L.149 art. 1. Comma 5.; questo obiettivo generale si colloca in diretta continuità con la possibilità di offrire un contesto relazionale e quotidiano tale da consentire al minore un percorso di elaborazione delle esperienze sfavorevoli e di riparazione del danno subito.
La quotidianità viene valorizzata e pensata come luogo elettivo “da cui parte la cura” e per questo è strutturata con lo scopo di rendere il contesto prevedibile, rassicurante, accogliente, sicuro, così da rispondere ai bisogni specifici evolutivi dei bambini in generale, colmare le carenze affettive, di cura, di protezione, di regolazione sperimentate in età precoce e per favorire la rielaborazione delle esperienze sfavorevoli. Il contesto quotidiano si configura come un luogo che nello specifico “concedeai bambini la possibilità di esprimere i propri vissuti, le proprie emozioni, i pensieri, narrare lapropria storia e sostenere la possibilità di nuovi investimenti affettivi al di fuori della comunità”. La prevedibilità e la regolarità delle routine quotidiane sono necessari a ridefinire e strutturare i confini spazio-temporali del minore nella relazione con l’adulto, spesso assenti o carenti o compromessi e a sperimentare il senso di efficacia e di competenza di sé.
Sul piano terapeutico, oltre alla parola si lavora anche attraverso il coinvolgimento del corpo,ilcanale comunicativo non verbale di una memoria “arcaica” che trattiene le prime esperienze simboliche affettive/emotive e che facilita la progressiva costruzione di una relazione significativa, della fiducia e della condivisione dei temi e dei propri vissuti che hanno segnato la storia del minore; il setting terapeutico si svolge con la compresenza di due psicoterapeuti, per prefigurarsi come poco intrusivo rispetto ad una relazione diretta e duale; a partire dalla progressiva costruzione della fiducia, si lavora con il minore favorendone l’auto-modulazione, l’autoregolazione, la riparazione dei danni relazionali e il senso di competenza, di efficacia e di sicurezza interna ed esterna, la tolleranza alle frustrazioni, l’esplorazione, l’autonomia, in diretta continuità con il lavoro che si colloca sul piano educativo e che si struttura, giorno dopo giorno, attraverso la quotidianità.
L’approccio di lavoro nelle comunità per adolescenti “è di tipo contestuale”: si cerca di supportare e monitorare i ragazzi nei vari contesti di vita sia interni che esterni alla comunità (scuola, gruppo dei pari, servizi, famiglia d’origine). Anche per gli adolescenti il contesto quotidiano si prefigura come un setting funzionale a ripristinare il senso di autoefficacia e di auto-competenza; sia sul piano educativo che psicologico si mira, da un lato, alla costruzione di un progetto di vita per i ragazzi che tenga conto della motivazione, del timing dell’intervento, delle loro spontanee inclinazioni e, dall’altro, a lavorare con le famiglie di origine, sostenendole anche attraverso la facilitazione dei rapporti in rete e con i servizi.

Le specificità del lavoro con i genitori e i bambini delle tre comunità 3-12

Gli incontri tra i genitori e i bambini si svolgono in luoghi pensati in modo da non condizionare i rapporti e le dinamiche che intercorrono nella diade; è adibito agli incontri un monolocale, che oltre agli spazi e le sale per il gioco “a misura del bambino”, dispone di luoghi che “non determinano ciò che si può fare”.
I primi incontri durano per un’ora, si svolgono all’interno della comunità e, successivamente iniziano a differenziarsi anche in termini di partecipazione dei genitori (es. cene pre-natalizie etc.); inizialmente, gli incontri non vengono svolti dagli educatori, ma da figure relativamente più esterne al contesto di vita quotidiano del bambino, per cercare di non incrementare la competizione, frequente e intenza nei primi momenti dell’inserimento del bambino in comunità, nei confronti delle figure che si occupano dell’accudimento primario.
Dove possibile, prim’ancora dell’allontanamento, si cerca di spiegare al genitore dove il figlio verrà collocato e di istaurare un rapporto basato sulla trasparenza, raccontando la routine e il funzionamento generale della comunità e, in alcuni casi, ciò si è dimostrato favorevole per la collaborazione all’inserimento del bambino, soprattutto in termini di de-colpevolizzazione del minore rispetto a questo avvenimento.
Nei primi incontri si cerca di “riconoscere” il genitore nelle sue funzioni e nella sua relazione con il minore, domandando gli interessi del bambino, i gusti, le sue preferenze e cercando di contenere la conflittualitàiniziale nei confronti degli operatori anche con il rimando al decreto e attraverso la definizione di un rapporto accogliente, inteso come luogo simbolico di “comprensione e cambiamento rispetto a ciò che è successo”.
Nei primi momenti successivi alla collocazione del minore in comunità è assicurataai genitori la reperibilità telefonica con una frequenza maggiore di una volta a settimana negli orari di ufficio (9,00-17,00). L’accoglienza attraverso la reperibilità telefonica nel tempo permane, ma viene regolata e a seconda delle specifiche situazioni. Gli educatori sono preservati dai contatti diretti in quanto ai genitori viene fornito il recapito fisso della segreteria della struttura, o quello del coordinatore; la reperibilità telefonica, nei momenti iniziali della collocazione del minore è finalizzata a “condividere con i genitori i momenti e le difficoltà del minore legati alla separazione nella trasparenza” e a generare progressivamente una possibilità di ascolto delle fragilità di cui sono portatori gli adulti.
Nei periodi successivi, i genitori intraprendono il lavoro terapeutico individuale; parallelamente, si cerca di anticipare gli incontri protetti con dei momenti di condivisione della quotidianità, per rendere partecipe il genitore della vita del bambino facilitandone l’approccio e il senso di competenza.
Durante gli incontri l’educatore svolge un’osservazione partecipata, benché si prediliga un approccio non interventistico e sostitutivo rispetto ad alcune dinamiche ritenute disfunzionali, soprattutto nei momenti iniziali per non incrementare la rabbia dei genitori; la presenza dell’educatore, in questi casi, tutela il minore attraverso la testimonianza diretta delle dinamiche e la condivisione della difficoltà avvertite. Negli incontri in cui la rabbia viene espressa in maniera diretta dal genitore nei confronti del bambino, si cerca di far comprendere al minore l’esistenza di due livelli comunicativi (ossia quelli che concernono solo gli adulti e quelli che possono coinvolgere gli adulti e i bambini), al fine di de-responsabilizzare e tutelare il minore rispetto alla conflittualità; la riflessione con il genitore sulle ripercussioni emotive che l’espressione della rabbia e della conflittualità procura al bambino, talvolta costituisce un mezzo di contenimento adeguato.
Data la complessità degli incontri protetti, la riflessione e la condivisione in equipe delle strategie operative è di cruciale importanza; gli incontri vengono effettuati all’interno di una prospettiva dinamica delle relazioni, poiché tutto può essere “ridefinito, trasformato e riorientato”.

La reciprocità della cura e la formazione

Nella consapevolezza della difficoltà del lavoro quotidiano degli educatori, in termini di sollecitazioni emotive,sono previsti dei momenti di confronto individuale sia con lo psicologo della struttura che e di condivisione in equipe delle difficoltà riscontrate sul campo. Inizialmente, le equipe si distinguevano in base ad un doppio focus differenziato: sui casi specifici e sul “clima” dell’equipe, ossia introducendo degli “elementi di supervisione interna”; attualmente questa suddivisione non è più definitapoiché le equipe si prefigurano anche come un momentointergrato di riflessione e condivisionerelativa all’espressionedelle difficoltà legate al caso e che emergono durante il lavoro in comunità; permangono, inoltre, dei setting a cadenza settimanale per equipe di ciascuna comunità durante i quali affrontare le difficoltà che emergono. Il Caf-Onlus investe, inoltre, sulla formazione sia interna che esterna degli operatori; la formazione è centrata sia sugli aspetti “concreti” legati alle tematiche, ad esempio, del “gioco, del trauma” e sulle modalità operative che gli educatori agiscono nella relazione con i bambini nella quotidianità, che sugli aspetti personali degli educatori sollecitati dalle rilevanti esposizioni emotive legate al contesto, oppure sulla riflessione relativa agli strumenti appresi e le prassi interiorizzate nel tempo.
Criteri e fattori di efficacia:
Per lungo tempo il Caf-Onlu si è interrogato sulla valutazione dell’efficacia dei propri interventi di comunità. Esito di questa riflessione è stata la definizione di fattori di efficacia attraverso l’identificazione di indicatori quantificabili. I fattori di efficacia sono quattro, ovvero:
-Tempi di permanenza del minore in comunità: l’obiettivo è quello di diminuire gli anni di permanenza del minore, attraverso un adeguato lavoro sia interno alla comunità sul piano psicopedagogico che di rete, attivando i servizi specificamente preposti alla cura del minore.
-Numero di psicoterapie attivate per i minori: l’obiettivo è quello di aumentare il numero di prese in carico psicoterapeutiche (a fronte dell’esiguità delle risorse economiche del sociale) attraverso relazioni inviate ai servizi e al Tribunale volte ad esplicitare, all’interno di un quadro complessivo del lavoro effettuato sul piano terapeutico, educativo e durante gli incontri con i genitori, l’esigenza relativa alla presa in carico del minore. Attualmente su 30 bambini, 17 sono coloro che usufruiscono della presa in carico psicoterapeutica.
-Numero di incontri in rete: l’obiettivo è quello di incrementare il numero di incontri con tutte le figure che a vario titolo si occupano dei minori al fine di condividere gli aggiornamenti relativi all’andamento dei percorsi; il Comune di Milano dispone di una particolare convenzione che prevede incontri in rete trimestrali, oltre la consegna semestrale obbligatoria; il trend rispetto a questo indicatore è di due incontri intensivi l’anno, che trattano in maniera approfondita l’evoluzione dei percorsi.
-Soddisfazione percepita del lavoro effettuato da parte dei servizi: si rileva la qualità della collaborazione.

Presentazione:

Approfondimenti 1:

Approfondimenti 2:

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