Esiste un consenso sull’incremento significativo negli ultimi decenni delle diagnosi di deficit da disturbo dell’attenzione e iperattività (ADHD), e spettro autistico (ASD). Se le ipotesi di effetti ambientali, quali l’alimentazione e l’inquinamento da microplastiche e polveri sottili sono sempre valide, non dovremmo sottovalutare i fattori culturali, che si “sommano” nella spiegazione del fenomeno. Da un lato, in particolare per lo spettro autistico, c’è il tema della “sostituzione diagnostica”, cioè il cambiamento dei criteri diagnostici, divenuti sempre più sfumati e inclusivi. Da che si è affermata negli anni ’80, negli anni ’90 la diagnosi è andata incontro ad una distinzione e moltiplicazione delle sue tipologie e, negli anni 2000, ad un superamento di queste a favore di una concezione “a gradiente”. Dal 2013 il DSM-5 parla di Disturbo dello Spettro Autistico laddove si presentino sin dall’infanzia dei disturbi significativi legati alla comunicazione socio-emotiva e alla ripetitività dei comportamenti e delle aree di interesse (definizione accolta dall’ICD-11 nel 2018). Ovviamente a che punto un “disturbo” diventi significativo dipende molto dalla sensibilità del valutatore. Come nel caso dell’ADHD, per il quale a fare la differenza non sembra tanto l’evoluzione della diagnosi (dagli anni ’80 è rimasta abbastanza invariata), ma un cambiamento nella sensibilità dell3 valutator3 che si applica anche retrospettivamente, visto che si assiste ad un incremento delle diagnosi in età adulta, di una condizione che per essere diagnosticata deve manifestarsi nell’infanzia. E l’aspetto retrospettivo può portare con sé dei bias significativi, visto che le diagnosi di ADHD nella persona adulta includono anche indicatori più relazionali e umorali (sbalzi d’umore, impazienza e difficoltà nel mantenere le relazioni), largamente sovrapponibili ad altre condizioni di funzionamento emotivo che possono influenzare la fisiologica ricostruzione mnemonica dei propri comportamenti infantili, a maggior ragione su un criterio continuo come il loro grado di pervasività.
Se ne parlo in questa rubrica, però, è perché ho la netta percezione di un cambiamento nel rapporto dell3 adolescenti con queste descrizioni, il modo in cui si interrogano se siano adatte a loro, se possano essere una soluzione ai loro problemi. D’altra parte, mi sembra che stiamo assistendo ad un cambio di segno nel valore di queste diagnosi: non più percepite come stigmatizzanti, ma con una possibile funzione positiva nel contesto relazionale. In particolare, credo che tra le nuove identità che l3 giovani scoprono e condividono nel discorso sociale prenda piede quella “neurodivergente”. Proposto inizialmente dalla sociologa/attivista Judy Singer alla fine degli anni ’90 come lente per depatologizzare lo spettro autistico decostruendo la convenzione sociale di “normalità”, oggi il concetto di neurodivergenza si è espanso. Anche nel contesto clinico lo si usa per riferirsi a “qualsiasi modo strutturato e coerente in cui il cervello funziona in modo diverso per un gruppo di persone rispetto alla maggior parte degli altri”. In pratica, da sinonimo di spettro autistico, è diventato una descrizione depatologizzante più estesa, ma dai contorni molto confusi: include i “disturbi del neurosviluppo” (quindi deficit intellettivi–ma anche all’opposto la plusdotazione–, disturbi del movimento, del linguaggio e dell’apprendimento, ADHD, e ASD), ma tende a diventare una categoria identitaria più ampia, includendo tutte le condizioni di salute mentale (dall’ansia generalizzata al disturbo ossessivo compulsivo, al disturbo borderline di personalità) che vengono depatologizzate applicando in modo indifferenziato lo stesso paradigma innatista biologico proprio dei disturbi del neurosviluppo: ciascunə è diversə perché natə così, punto.
Come terapeuta sento la grande utilità di un’identità depatologizzante per le persone con un funzionamento stigmatizzato, accolgo il principio che esista una base biologica a determinati funzionamenti e la necessità di interrogarsi su quali di questi non possano essere cambiati con la psicoterapia mentre possono ricevere un valido supporto farmacologico. Però avverto una certa confusione logica ed epistemologica.
Da un lato, il concetto di “neurodivergenza” si afferma come un’identità sociale che le persone usano per descriversi, un concetto astratto che non ha bisogno di essere “esatto”. Possono usarla perché hanno ricevuto una diagnosi di ADHD o di ASD o di DSA, o per dire che si sentono disallineate rispetto alle norme sociali, o che sono “psicorigide”, o altro. D’altra parte, si tratta di una descrizione che si riferisce a un vincolo biologico che determina un cambio di atteggiamento verso il proprio funzionamento. Un seme radicale piantato nell’idea di sé dellə nostrə adolescente e delle sue possibilità: potenzialmente liberatorio e imprigionante allo stesso tempo. E non aiuta il fatto che il terreno è epistemologicamente scivoloso.
Le diagnosi del neurosviluppo si basano sulla premessa di una differenza neurologica innata, che genera una discontinuità qualitativa tra lo sviluppo tipico e l’atipico, e che tale discontinuità possa essere più o meno importante, su uno spettro. D’altra parte, se si considera che sempre l’assetto neuro-temperamentale di partenza vincola lo sviluppo e l’apprendimento di ognunə e può essere concepito come un sistema di varianze su assi diversi (predisposizione ansiosa, sensibilità agli stimoli, intolleranza alla frustrazione, etc.), diventa difficile tracciare, anche concettualmente, delle distinzioni tra un assetto biologico innato “leggermente autistico” e uno, ad esempio, “molto ansioso”, “ipersensibile”, etc. Non potendo osservare direttamente eventuali differenze qualitative dei processi biologici, e dovendosi basare solo sui comportamenti, ci ritroviamo con uno “spettro di neurodivergenza” virtualmente onnicomprensivo (una “neurovarianza”). Questo andrebbe benissimo per dirci che ogni persona è diversa, ogni sistema nervoso parte da premesse biologiche diverse per affrontare una storia differente. Il problema però è che cerchiamo sempre la linea di demarcazione tra “neurotipico” e “neurodivergente” … con il rischio a questo punto di usare “neurodivergente” per tutte le differenze da una norma ideale.
C’è poi un effetto di interpellazione identitaria. Chi può davvero riconoscersi come “tipicə”? chi si sente davvero “normale”? …In adolescenza è normale preoccuparsi sul proprio grado di “funzionalità”, alimentando la paura di non essere normale, e quando normale è qualcosa di così astratto, diventa una certezza il fatto di non esserlo. Trovare allora una categoria che definisca quel sentimento in modo positivo protegge dal disvalore della disfunzionalità, generando un’identità positiva e un senso di appartenenza che, però, dipende dalla contrapposizione tra quella categoria e lə altrə. “Noi neurodivergenti e le altrepersone neurotipiche”. La categoria diventa un passaggio dalla “disfunzionalità” alla “divergenza”. E la divergenza non è “normalità”, il cambio di segno del valore della descrizione è talmente potente che diventa un attestato di “straordinarietà”, di libertà dagli schemi e dalle norme. Come per le persone gender non conforming, gruppo che, non a caso, vede un maggior numero di diagnosi di spettro autistico rispetto alla popolazione generale. Se l’interpretazione di questo dato è difficile, sono evidenti le analogie tra le due situazioni, in cui la diagnosi assume un valore di “autorizzazione sociale” a essere se stessə, con un analogo messaggio etico e liberatorio delle minoranze dagli schemi normativi oppressivi.
Rimane però una profonda ambiguità tra una diagnosi del neurosviluppo che ontologizza un’alterità e allo stesso tempo un’identità sociale che finisce per suggerire l’universalità della differenza, con un gocciolamento semantico dell’una nell’altra… Poi penso al giovane che avevo ieri di fronte a me che ha ricevuto da una collega la diagnosi di ADHD e piangeva di rabbia per non aver avuto prima questa risposta liberatoria: finalmente una cornice di senso al fatto che i suoi “limiti” sono reali ma non lo rendono sbagliato, e vorrebbe fare causa a tutti gli psichiatri che lo hanno seguito negli ultimi 10 anni. E mi chiedo se finalmente il suo percorso si alleggerirà e i farmaci miracolosi gli permetteranno di accedere al senso di valore di sé su cui lavoriamo da più di un anno. E spero che la risposta che ci attende metta a tacere tutti i miei dubbi sulla questione.
Federico Ferrari, psicologo psicoterapeuta, terapeuta di coppia e familiare