Andreea mette gli ultimi vestiti nella lavatrice. È esausta. Dalle cinque del mattino non si è ancora fermata: ha lavato, stirato, riassettato, cucinato. E la signora la notte prima non ha nemmeno dormito. Andreea la guarda: non è colpa sua, poverina. Non riesce quasi più a muoversi e la notte è tormentata da dolori lancinanti. Così si lamenta e Andreea per molte notti di fila non riesce a chiudere occhio, né riesce a fare qualcosa per aiutarla. È stanca Andreea. Nel corpo e nell’anima. Eppure prova una profonda tenerezza per quella donna, la sua “padrona”, come la chiama lei. Potrebbe essere sua madre, se fosse ancora viva. E quante cose sarebbero state diverse nella sua vita, se fosse stata viva sua madre. Si siede sul letto che, a dire il vero, appare più come un giaciglio improvvisato in una stanza che, fino a qualche mese prima, era uno studiolo, appartenuto al figlio della signora. E piange, piange scossa dai singhiozzi. Non serve a nulla, ma quando riesce a lasciarsi andare a questi pianti disperati, poi le sembra di sentirsi un po’ meglio. Stasera chiederà al figlio della signora il permesso di chiamare suo marito e sua figlia in Romania. È da più di una settimana che non li sente. Quando era partita, ormai due anni prima, immaginava che sarebbe stata dura, ma non così. Non è solo per il lavoro, anche se è davvero massacrante. Non riesce mai a staccare e anche quando le viene concesso il giorno di libertà, dove potrebbe andare? Non conosce nessuno, uscire e svagarsi vorrebbe dire spendere parte di quei soldi di cui ha un bisogno disperato. Così finisce per rimanere nella sua camera, nello studiolo, a leggere. Legge i libri della signora e quelli del figlio. La maggior parte delle parole non le capisce nemmeno. E così aspetta. Aspetta che venga mattina e che venga sera, aspetta di ricominciare a lavorare, aspetta una telefonata che non farà che accrescere l’amarezza della sua vita. Ma non è solo questo. È l’assenza di alternative a lasciarla nella disperazione più grande. Non le piace stare lì, ma cercare un altro posto vorrebbe dire rischiare di stare anche molto peggio. È il senso di umiliazione, ecco quello che la tormenta. Essere sempre nella condizione di chiedere, di elemosinare quasi: una telefonata, un’ora di permesso per fare una visita o per andare in chiesa, un po’ di frutta e di verdura in più, il riscaldamento acceso qualche ora prima al mattino, per lei che si alza così presto. Ogni richiesta pesa come un macigno, perché viene attentamente valutata, fatta pesare, come se il suo lavoro non fosse indispensabile, come se il suo essere lì fosse una condizione da guadagnarsi ogni giorno. Come se fosse scontata la dedizione quotidiana che richiede occuparsi di una persona anziana e gravemente malata. Non può permettersi giorni di stanchezza Andreea, non può permettersi qualche risposta storta. Lei è una dipendente. E non è essenziale. Perché di donne come lei che cercano lavoro ce ne sono moltissime. Nulla le appartiene e tutto ha da perdere. Nulla le appartiene, nemmeno il suo nome. Andreea. Troppo difficile per le signore italiane anziane ed anche per i loro parenti. E allora si fa chiamare Rosetta. Le famiglie lo preferiscono. È un nome per loro più familiare e toglie quel retrogusto straniero che non piace. Perché a volte sembra che le famiglie si vergognino di aver assunto una donna rumena. Ma d’altra parte, di donne italiane disposte ad accettare le sue condizioni di vita e di lavoro non ce ne sono tante. Andrea si stringe le spalle. Non sa per quanto ancora potrà sopportare questa vita. Eppure non ha scelta. Deve aiutare la sua di famiglia e fare di tutto perché la sua bambina abbia una vita migliore di quella che ha avuto lei. Quanto vorrebbe vederla, abbracciarla. L’ultima volta è stato più di un anno fa. All’inizio avevano concordato, lei e suo marito, che sarebbe tornata a casa una volta ogni sei mesi. Ma poi ha dovuto rinunciare. Perché è doloroso tornare a casa se sai che non ci potrai restare. E così è meglio non tornarci per niente. Ma la sua bambina piange al telefono, vuole sua madre. E lei vuole sua figlia. Non c’è niente di più triste per una mamma di dover scegliere tra i propri figli e qualcosa che, anche se non più importante, è certamente più pressante. Quei maledetti soldi non bastano mai. Cinque anni, dice suo marito. Ancora cinque anni e tutti i debiti saranno risolti e il loro avvenire sarà sereno. Cinque anni. In queste condizioni sembrano cinquanta. Piange Andreea, piange tutte le lacrime che le sono rimaste. Piange per suo marito, per la sua bambina, per sua madre che non c’è più. Per la sua vita sospesa tra passato, presente e futuro. Per gli anni di felicità che ha perso e che nessuna somma e nessuna promessa di un futuro che appare lontanissimo le potranno mai restituire.  

Monica Betti, insegnante di scuola dell’infanzia e docente del Master