scuola

Il giorno che ho cominciato ad insegnare ho promesso che avrei accolto ciascun bambino così com’era. Che non l’avrei plasmato ad immagine e somiglianza di nessuno. Che l’avrei protetto dall’individualismo del mondo cercando di esaltare la sua unicità, rendendola preziosa per il bene comune.

Ho promesso che avrei protetto la felicità di ognuno dei miei alunni a costo di qualsiasi sacrificio. Nessuna di queste promesse la sento più vera oggi, che quei bambini non li posso abbracciare né guardare negli occhi, ma mi sento responsabile per loro e per le loro famiglie finché la nostra vita non ritornerà ad essere normale. Ho promesso che non avrei servito nessun altro padrone se non il senso di ciò che credo giusto e ho promesso che gli errori che inevitabilmente avrei commesso, e li commetto ogni giorno, non avrebbero mai avuto a che fare con l’egoismo né con la superficialità. Non sono un’insegnante particolarmente brava, ma tutto ciò che ho e che posso ancora imparare lo considero al servizio della mia comunità. Gli insegnanti hanno a disposizione tutto ma non possiedono niente. Nemmeno il sapere dei bambini che contribuiscono a plasmare. Non teniamo niente per noi stessi: accogliamo quei bambini che vengono dal mondo e al mondo li restituiamo quando abbiamo imparato da loro più di qualsiasi cosa abbiamo potuto insegnare. Insegnare significa lasciare un segno, fare dono di sé, perché nessuno sia uguale a prima. Perché il mondo non sia quello di prima. Non è una missione. Ma è sacrificio continuo, ricerca ininterrotta di ciò che ci permette di dare il meglio di sé. Questo è l’insegnamento e questa è la scuola come in un Paese libero viene concepita. In diversi Paesi dell’India e dell’America Latina esistono ancora scuole che appartengono al più bieco retaggio coloniale del passato. Le chiamano factory schools, scuole di assimilazione. Sollevano apparentemente le famiglie dalla povertà più nera, fingendo di garantire cibo ed istruzione. In realtà, indottrinano i bambini e li allevano secondo la logica delle multinazionali che governano i loro Paesi, affamando i loro villaggi e le loro comunità. Li strappano alla vita modesta, ma ricca di legami sociali e culturali e glieli restituiscono con conoscenze inutili alla loro sopravvivenza in quelle stesse comunità, ricolmi di bisogni che le loro famiglie non possono sostenere, civilizzati secondo le logiche del potere, asserviti alle logiche di chi non può aspirare ad ottenere più di ciò che gli è concesso. Tra tutti i crimini, gli abusi, i maltrattamenti, i mezzi di indottrinamento illeciti che vengono utilizzati, il crimine peggiore è proprio questo. Non concedere di desiderare e di ottenere più di quello che è stato in maniera assolutamente ingiusta ed iniqua predeterminato. Perché questo presuppone che le vite umane non abbiano tutte lo stesso valore. Chiudo gli occhi e vedo il viso di ognuno dei miei alunni. Cerco di immaginarmi quello stesso viso senza il luccichio dei loro occhi quando capiscono che possono andare oltre loro stessi, che possono desiderare qualsiasi cosa, perché non vi è alcun obiettivo precluso a chi è disposto a sacrificio, impegno e volontà. Mi chiedo dove abbiamo sbagliato, dove tuttora sbagliamo, per avere un mondo in cui ancora non a tutti i bambini è garantita quella luce, quella sensazione di profondo orgoglio di fare da soli, di poter prendere in mano la propria vita. Mi chiedo come possiamo ancora fingere che nel mondo non esistano decine di migliaia di bambini che vengono torturati, umiliati, che tentano il suicidio perché l’alternativa a non farsi indottrinare è il perenne isolamento sociale. Mi chiedo come possiamo batterci per le scuole delle nostre comunità ristrette dimenticandoci che c’è una scuola che deve rispondere alle leggi dell’umanità e della profonda uguaglianza. Mi chiedo che cosa ne sarà di tutti i bambini che verranno abbandonati all’ignoranza e ad una povertà più profonda di quella che hanno già conosciuto, perché per un pugno di pane dovranno ipotecare la loro esistenza e quella della loro discendenza per arricchire le tasche di chi quel denaro continua ad usarlo per marcare la linea che divide in due il mondo. Mi chiedo che cosa possiamo fare per spezzare questa catena, perché uno solo di quei bambini possa avere un’altra possibilità, un altro destino. Spero che questa profonda crisi sanitaria ed umana ci possa almeno insegnare a rinunciare ad un po’ del nostro superfluo. Perché è proprio per continuare ad alimentare il superfluo che intere comunità sono ridotte alla fame e costrette alla più profonda ignoranza. Spero che tutti possiamo ora guardare la scuola con occhi diversi. In un tempo i cui siamo chiamati ad inventare una scuola fuori dalla scuola, in cui ciò che siamo, per una volta, conta più di quel che facciamo o crediamo di fare, spero che ci possiamo rendere conto di come ciò che credevamo accessorio sia in realtà essenziale: la relazione, l’opportunità di crescere insieme, di sostenerci a vicenda, di fare comunità, di creare obiettivi comuni, di essere diversi nelle caratteristiche ma uguali nelle opportunità. Spero che questa emergenza che esalta le fragilità e ci impone uno spazio di riflessione non consueto possa indurci a guardare oltre noi stessi. Che possa far nascere dentro di noi una nuova speranza: quella di poter essere migliori di quelli che siamo. Quella di smettere di credere che l’essere nati in un qualche luogo della terra costituisca un merito ed una fonte di privilegio. Quella di non poter più permettere che qualcun altro subisca ciò che noi non potremmo mai lontanamente accettare.