Con una sentenza di sessantacinque pagine depositata in questi giorni (Cass., S.U., nr. 24414/2021) la Suprema Corte di Cassazione si è nuovamente occupata, ma questa volta a Sezioni Unite, dell’annoso problema del crocifisso nelle aule scolastiche. Molto più concisamente, con una circolare di sei righe, il 29 maggio1926 il Ministro di Grazia e Giustizia Alfredo Rocco così scriveva a tutti i capi degli uffici giudiziari del Regno: “Prescrivo che nelle aule di udienza, sopra il banco dei giudici e accanto all’effigie di Sua Maestà il Re sia restituito il crocefisso, secondo la nostra antica tradizione.”

Che la tradizione fosse antica non è dubitabile. Al tempo dell’Unità d’Italia la legge Casati (nata come legge piemontese del Regno di Sardegna e poi estesa a tutta l’Italia nel 1861) rivendicava allo Stato il diritto-dovere di occuparsi della istruzione pubblica e obbligatoria. Tuttavia, essa considerava anche diritto-dovere dello Stato occuparsi della istruzione religiosa, a fianco e in sostituzione della Chiesa cattolica che da secoli era stata l’unica a garantire una scuola ai fanciulli. La presenza del Crocefisso nelle scuole pubbliche era coerente con quella impostazione.

All’epoca del primo governo Mussolini, la riforma del ministro Giovanni Gentile (R.D.L. 31 dicembre 1922, n. 1679) pur rafforzando la competenza dello Stato nell’istruzione pubblica, considera la religione cattolica “fondamento e coronamento dell’istruzione elementare”. L’insegnamento è assicurato da docenti dichiarati idonei dall’autorità ecclesiastica. Successivi provvedimenti regolamentano l’organizzazione degli istituti scolastici. Il r.d. 30/04/1924 n. 965 in materia di arredi, dispone che (art. 118) “ogni istituto ha la bandiera nazionale; ogni aula l’immagine del Crocifisso e il ritratto del Re”.

Nell’Italia repubblicana il testo unico del 1994 n. 297 in materia di istruzione non menziona il Crocefisso tra gli arredi obbligatori ma non abroga espressamente la vecchia disciplina. Da qui una lunga serie di pronunce favorevoli o contrarie all’abrogazione implicita, fino a che nel 2004 la questione viene sottoposta alla Corte costituzionale in riferimento al principio della laicità dello Stato. La Corte, con Ordinanza n. 389 dello stesso anno, dichiara la manifesta inammissibilità della questione perché le norme impugnate sono norme regolamentari prive di forza di legge, che si limitano a disporre l’obbligo dei comuni di fornire gli arredi scolastici.

Infine, la questione è approdata davanti alla Cassazione su ricorso di un docente oggetto di una misura disciplinare per non essersi adeguato a una decisione della assemblea di classe degli studenti favorevole all’esposizione del Crocifisso nelle aule del loro istituto e alla conseguente circolare del dirigente. La Corte ha deliberato a Sezioni Unite, considerando la questione della massima importanza.

La decisione è articolata su cinque punti:

  • In base al principio della laicità dello Stato, non è consentita nelle scuole pubbliche l’affissione obbligatoria del Crocefisso né di alcun simbolo religioso;
  • L’art. 118 del r.d. 1924 n. 965, che ne faceva obbligo, va ora interpretato nel senso che la comunità scolastica può decidere di esporre il crocefisso in aula con valutazione che sia frutto del rispetto delle convinzioni di tutti i suoi componenti, ricercando un “ragionevole accomodamento” tra eventuali posizioni difformi;
  • E’ illegittima la circolare del dirigente che si limiti a richiamare i docenti al rispetto della volontà degli studenti senza aver cercato un ragionevole accomodamento con il docente dissenziente;
  • Conseguentemente è illegittima la sanzione disciplinare applicata;
  • La predetta circolare non integra una discriminazione nei confronti del docente dissenziente, e non ne ha condizionato la libertà di espressione culturale.

Purtroppo, è impossibile riportare qui l’intera motivazione della sentenza, lunga come si è detto sessantacinque pagine. D’altra parte secondo il comunicato della stessa Corte, piaccia o non piaccia, il succo della decisione è quello sopra sintetizzato. Ma riesce molto difficile immaginare come sarà il ragionevole accomodamento con chi ne fa una questione di principio sulla quale non cedere. Insomma, invece di fare come Alessandro Magno a Gordio e tagliare il nodo con la spada, la Corte ha cercato di scioglierlo. Non sembri irrispettoso pensare che vi è rimasta impigliata.

Luigi Fadiga, giurista, collaboratore del Master, già Presidente del Tribunale per i Minorenni di Bologna e Roma