Pinocchio e la resilienza

Né l’eredità, né la storia sono il destino. La resilienza è un concetto che si è affermato negli anni ’80 in stretta relazione con la precedente grande diffusione (e il grande successo) del concetto di vulnerabilità. Riorganizzazione positiva della vita e creazione di legami significativi.

La possibilità di trasformare un evento critico e destabilizzante in un motore di ricerca personale ha permesso a persone, gruppi, comunità di riorganizzare positivamente la loro vita di fronte/successivamente a traumi e tragedie. Un evento traumatico irrompe nel contesto di vita e stravolge i legami abituali. Il soggetto che vive questa esperienza può esserne paralizzato, restare una vittima per sempre o riprendere, diversamente, un’evoluzione e riconnettersi con un ambiente fisico, mentale, temporale, spaziale. Sottolineiamo quelle parole storico e anche transitorio, legate a infantile. Sono parole che vanno nel senso opposto a quello dell’individualismo di massa e del consumismo. Aprono ai contesti, alle loro microstorie, a quegli spazi materiali che contengono le storie di chi è passato da quei luoghi ed ha lasciato un segno. E le storie sono nei singoli bambini, nelle singole bambine, nei loro ritmi e nelle loro curiosità singolari, come insegna Emy Pikler. Pikler (Ungheria) che mette a punto la possibilità di una relazione educativa cooperativa fra l’adulto e il bambino fin dai primi mesi di vita, quando il corpo è il solo strumento attraverso il quale un bambino percepisce, pensa, si esprime. Cfr. E. COCEVER (1990), a cura di, Bambini attivi e autonomi, Firenze, La Nuova Italia.

In questo percorso incontriamo la resilienza. Per rebondir, rimbalzare in francese, una palla ha bisogno di spazio. Per riprendere una sua forma, un materiale compresso (stress) ha bisogno di spazio. Per un individuo umano, lo spazio è fisico ma soprattutto mentale. Come si educa alla resilienza, ovvero a uno spazio mentale? Quando Geppetto ebbe in regalo un pezzo di legno, lo guardò con l’occhio da vecchio falegname. L’occhio da vecchio falegname vede le tracce del passato di un pezzo di legno che è stato albero, e vede anche il futuro adatto a quel passato. Quel pezzo di legno non sarebbe diventato gamba di tavolo, ma marionetta. Geppetto vede le tracce del pezzo di legno. Non può certo riportare quel pezzo di legno ad essere parte dell’albero. E allora? Deve e può pensarlo nel futuro. Deve, e può, immaginare le tracce di futuro.

Grillo Parlante e Fatina dai capelli turchini. Il primo schiaccia sul presente (Pinocchio torna da solo a casa di Geppetto, e qui incontra un Grillo Parlante filosofo, che lo ammonisce riguardo al suo comportamento: Pinocchio, indispettito, schiaccia il grillo con una martellata). La seconda, rimette in moto (La Fata, dopo avergli spiegato che esistono due tipi di bugie: quelle con le gambe corte e quelle – come nel suo caso – con il naso lungo, riporta il naso di Pinocchio alla lunghezza originale con l’aiuto di un migliaio di picchi, e gli consente di correre incontro al babbo Geppetto, avvertito dalla Fata della presenza del burattino), per costruire futuro. E questo vuol dire aspettarsi qualcosa, pretendere, impegnarsi e impegnare e nello stesso tempo avere fiducia (La Fata l’ha perdonato grazie al rimorso mostrato da Pinocchio davanti alla sua finta tomba: vuole considerarsi come sua madre e trasformarlo in un ragazzo in carne e ossa; prima però desidera che la marionetta frequenti la scuola e si cerchi un buon mestiere. Pinocchio, un po’ a malincuore, promette, e riesce a diventare il primo della classe).

Grillo Parlante sembrava volere che Pinocchio diventasse obbediente come una marionetta. Fata no. Al risveglio Pinocchio si accorge di essersi trasformato in un ragazzo in carne e ossa; la capanna è diventata una bella casetta, i suoi vecchi vestiti si sono trasformati in nuovi e in tasca si trova un portamonete d’avorio con un biglietto: la Fata gli restituisce i quaranta soldi e lo ringrazia per il suo buon cuore. Ma i soldi sono diventati quaranta zecchini d’oro. Anche Geppetto si è trasformato: è ritornato l’arzillo vecchietto di prima e sta lavorando una cornice, riprendendo il vecchio mestiere di intagliatore in legno. Sorridendo, gli indica un burattino appoggiato su una sedia: è il vecchio involucro di Pinocchio, che si rivede come una buffa marionetta, e contento di essere diventato un ragazzino perbene. È stato resiliente.

In ecologia e biologia la resilienza è la capacità di autoripararsi dopo un danno; in ingegneria la resilienza è la capacità di un materiale di resistere a forze di rottura; in pedagogia e in psicologia la capacità di uscire indenni da situazioni traumatiche, a volte riuscendo addirittura a trarre cambiamenti positivi da queste esperienze.

Cfr. B. CYRULNIK, E. MALAGUTI (2006), Costruire la resilienza, Trento Erickson, ; e E. MALAGUTI (2006), Educarsi alla resilienza, Trento, Erickson,.

Il termine “resilienza” è molto usato ma poco noto. Può quindi sorprendere qualcuno il venire a sapere che esso appartiene a un linguaggio tecnico relativo ai materiali dell’edilizia. In particolare, la resilienza consiste nella capacità che ha un certo materiale di riprendere la sua forma avendo subito delle deformazioni, essendo stato schiacciato o comunque avendo perso la sua forma originaria. Trasportato nell’educazione, in particolare ripreso per indicare una delle qualità possibili di chi cresce, ci permette di capire quanto bambine e bambini che abbiano subito delle profonde deformazioni, anche per la violenza delle situazioni in cui hanno vissuto, possono riprendere la loro struttura. Come per i materiali nell’edilizia un elemento fondamentale è poter avere dello spazio. Se la compressione viene continuamente esercitata è difficile poter mostrare una capacità di resilienza. Bambine e bambini possono essere soffocati anche dalle attenzioni e non poter mostrare questa capacità di resilienza. Ma noi proponiamo di riflettere sull’attitudine e sull’impegno ad educarci alla resilienza, cioè a considerare che questa possibilità non è un dato meccanico ma ha bisogno di un’intenzionalità.

Come tutto ciò che è educazione anche in questo caso la dimensione intenzionale è fondamentale. Noi riteniamo che questa considerazione non sia unicamente valida per bambine e bambini che hanno vissuto, o che stanno vivendo, delle situazioni drammatiche così forti come quelle dei paesi che chiamiamo, per semplificare, lontani. E’ utile pensare che anche in quelle che potremmo tranquillamente dire essere le condizioni normali di chi cresce nel nostro paese, in altri paesi d’Europa, nei paesi del benessere, vi è la necessità di educare alla resilienza.

Andrea Canevaro, pedagogista, professore emerito dell’Università di Bologna