Come riuscire a fare in modo che i bambini/e e i ragazzi/e che sono profondamente feriti dentro di sé possano sentirsi ascoltati? E’ un interrogativo guida per ciascun professionista che opera nel campo della tutela e dell’educazione; può essere una buona bussola per aiutarci a modulare il nostro agire in risposta a quel specifico bambino/bambina, ragazzo/ragazza e ci aiuta a ridurre il rischio di porci e proporci in modo stereotipato.

Giuseppina Parisi, Mediatrice familiare, docente del Master Tutela, diritti e protezione dei minori

Non c’era una volta

Non c’era, una volta, nessuna Patrizia, e questo dispiaceva a tutti. Specialmente a Patrizia, che ne era molto crucciata. Perché lei si faceva notare, eccome! Strillava, pestava i piedi per terra e talvolta graffiava la faccia, soprattutto ai maschietti, quando le facevano cadere il gelato o le dicevano che era brutta. Quindi bastava guardarsi intorno e si vedevano i segni della sua presenza: la finestra senza vetri del piano di sopra, che era senza vetri da quando lei un giorno (anzi, una notte) aveva pensato bene di calarsi di lì come le principesse dei piselli e delle carote, o il pianoforte che era rimasto scordato da quando lei aveva protestato con maggior veemenza del solito contro le lezioni pomeridiane, o come l’incisivo centrale sinistro (mancante) del povero Marco Antonio, che un giorno si era sognato di dirle che era brutta. Con tante tracce della mia azione, si chiedeva Patrizia, come posso non esserci?

Il problema grosso, con questa domanda, è che non si poteva farla a nessun altro. Cioè: si poteva farla, ma si sarebbe ricevuta una risposta imbarazzata, e magari un moto istintivo di difesa nei confronti dell’incisivo centrale sinistro. Tutti si sarebbero dispiaciuti, come ho detto, ma nessuno l’avrebbe presa sul serio, affrontata nel merito: chiunque l’avrebbe considerata un trabocchetto e si sarebbe messo la mano davanti alla bocca, cercando di non dare nell’occhio, come se gli fosse finito un pezzettino di lattuga fra gli incisivi, in quel punto ad alto rischio di sganassone. Perché tutti gli altri erano ben convinti che Patrizia ci fosse: i segni che lei aveva lasciato erano loro perfettamente familiari, erano parte della loro storia, impressi nei loro corpi, e ogni tanto si riunivano e ne parlavano, dei segni che Patrizia lasciava e di come lei avesse questa strana fissazione, che a tutti dispiaceva, di non esserci.

La domanda, dunque, Patrizia poteva farla solo a se stessa. Perché era solo lei che non portava i suoi segni; era solo a lei che sembrava di non esserci. Ogni tanto cercava di raccontare la sua storia, quella storia che ognuno di noi racconta e che lo fa sentire a casa, che gli fa caldo anche se fuori è inverno e tenerezza anche se lui è un mostro, la storia di come siamo arrivati dove siamo arrivati, dove siamo arrivati e nessuno ci ha capito davvero e siamo piccoli piccoli e tanto tanto indifesi; e in questa storia non si trovava. Trovava tutti gli altri; trovava i segni che aveva lasciato in loro; ma c’erano solo quei segni e avrebbe potuto esser stato chiunque a farli. Forse li aveva fatti lei ma non c’era niente di lei, nei segni: c’era solo una finestra senza vetri e un incisivo spaccato. E lei non era una finestra o un incisivo spaccato.

Non si sa come sia andata a finire. Questa è una favola senza una morale. Si sa solo che Patrizia cercò, per lungo tempo, di lasciarsi dei segni sulle mani, sui piedi, sulle braccia, su tutto il corpo. Perché aveva concluso che, solo se anche lei avesse avuto dei segni, ci sarebbe stata.

Tratto da: Ermanno Bencivenga, “La filosofia in ottantadue favole”, Mondadori, 2017

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