Un giorno questo dolore ti sarà utile”. Suona come la promessa di un bene che verrà da un presente ancora privo di senso… promessa rassicurante offerta da una realtà difficile, l’unica davvero importante per qualunque crisi. Così titolava il best seller di Peter Cameron, narrando la storia di un introverso diciottenne newyorkese, figlio di genitori separati, e della sua fatica ad orientarsi nel mondo. Un libro ponte tra adolescenze di tutte le generazioni.

Ci ricorda su un articolo del Corriere lo psichiatra Giancarlo Cerveri che il cervello dell’adolescente è in fase di “pruning” (la “potatura sinaptica”) e pertanto (fisiologicamente) impulsivo e (funzionalmente) predisposto all’esplorazione, ma anche sballottato in un continuo rimaneggiamento dei collegamenti neuronali che lo porta dal massimo della potenzialità al massimo dell’efficienza (almeno dal punto di vista della materia grigia). Non so se ci siano reali giustificazioni di una lettura causalmente lineare e biologica di questo fenomeno, o se tutto questo “pruning” non possa essere a sua volta l’effetto di una fase della vita così propulsiva e disorientante, in termini di relazioni, ruoli e decisioni esistenziali. Tuttavia, è interessante che anche sul piano biologico si abbia riscontro della decisività di questo passaggio. Quindi, forse perché lo dicono le nostre cellule nervose, forse perché lo dice il sistema relazionale e sociale, c’è una finestra del tempo individuale entro la quale alcuni giochi si chiuderanno e non sarà più possibile riaprirli. Non negli stessi termini…

Se ci atteniamo all’idea che la vita non è ciò che ci accade ma ciò che facciamo di ciò che ci accade (cit. Fabio Volo, ma anche John Maxwell, ma anche Epitteto…), una buona parte delle decisioni di cosa fare di ciò che ci è accaduto nell’infanzia sembra si giochi durante l’adolescenza. O magari definiamo “adolescenza” tutto il tempo necessario a decidere cosa fare di ciò che pensiamo ci sia accaduto nell’infanzia: che in effetti potrebbe spiegare perché più il mondo valorizza la soggettività e la responsabilità individuale della propria vita, più l’adolescenza tende a protrarsi oltretempo.

Ma, per salire di livello, forse l’adolescenza è la finestra durante la quale definiamo il nostro stile di quella roba lì (del decidere cosa fare di ciò che ci accade). In altre parole, potrebbe essere una finestra di deuteroapprendimento (direbbe Bateson), riferendosi ad un apprendimento “meta”, di secondo ordine: un apprendimento su come apprendere.

Sempre Cerveri sottolinea l’importanza che oggi siamo portati a dare agli “stati mentali a rischio”, che possono instaurarsi sul “rimaneggiamento” neuronale continuo, quelle manifestazioni sintomatiche, considerate forme psicotiche sottosoglia, momenti di perdita funzionale transitoria, che possono segnalare il rischio di una fragilità psichiatrica nell’adultità. Si tratta chiaramente di una lettura epidemiologicamente corretta ed epistemologicamente problematica, se ci pone in una posizione di disconoscimento delle competenze dell’adolescente in quanto “fragile”, rischiando di attivare una profezia che si autoavvera, un “effetto golem” (il contrario del “pigmalione”) che conferma la paura dellə giovane di non andare bene. Se nel dolore c’è qualche utilità, questa non è certo considerarlo come segno di una propria fragilità. Specie se tale fragilità è intesa come inadeguatezza esistenziale. Questo dubbio nucleare sul proprio valore è uno dei fuochi della disistima, che a sua volta è l’architrave del disagio mentale (cit. Paolo Rigliano).

Ma è anche vero che moltə giovani che incontriamo nei servizi, alla loro prima crisi, anche di stati mentali a rischio, sono ragazzə che “sembravano funzionare bene” e sono andatə a sbattere… che non erano prontə a “fallire”, e stanno annaspando nel tentativo di dare un senso a questa esperienza che non è ammessa nelle loro premesse (loro nel senso del loro sistema relazionale e identitario). Abbiamo quindi, da un lato, certo, giovani che hanno una storia di (apparenti) “fallimenti” e che hanno accumulato pregiudizi sulla propria funzionalità sin dall’infanzia, fino a non credere più nelle proprie capacità, e altrə che non hanno mai messo in conto la possibilità di fallire, e per questo, di fronte alla prima sbandata, si trovano indifesə di fronte alla perdita del proprio ideale di sé.

In entrambi i casi, la crisi può essere l’occasione di apprendere a rialzarsi o l’interiorizzazione del fatto che, poiché si continuerà a cadere (perché è sempre stato così o perché in realtà sono un bluff), tanto vale restare sdraiatə che fa meno male.

La cosa più importante che possiamo imparare dal dolore durante l’adolescenza è che sopravviviamo alla tempesta: come diceva Obama, “it gets better”, che possiamo trovare senso nelle cose, che alla fine un disegno di vita si delinea verso un orizzonte.  

Su un piano più microesperienziale, però, credo che il deuteroapprendimento si traduca in un’idea di sé come “resiliente” o “emotivamente fragile”: No, non ce la posso fare, è un dolore intollerabile, io non posso sopportarlo”. Quante volte l’ho sentito. Ma questo apprendimento su di sé genera la paura della sofferenza, che è un amplificatore naturale del dolore, e che a sua volta si trasforma in una profezia che si autoavvera: ricorrendo a strategie di evitamento del dolore, che alimentano la paura di affrontarlo, e l’idea di non poterlo sopportare… Ma come fare ad aiutare lə ragazzə a non evitare il dolore senza prescrivere loro situazioni che non sono prontə ad affrontare?

Siamo in grado di vedere la delicatezza di certe strutture affettive, di certi frangenti evolutivi, senza credere che questo sia una qualità definitiva dellə ragazzə che abbiamo davanti? Senza prescrivergli con il nostro sguardo e il nostro pregiudizio (avrebbe detto Gianfranco Cecchin) l’inadeguatezza?

Aiutarlə a non evitare il dolore ma saperlə supportare nell’affrontarlo dando loro sicurezza: noi siamo davvero in grado di offrire loro una rassicurazione sufficiente? Individualmente credo di no.

Perché in questi anni le crisi di dolore e paura del dolore, e di disperazione dellə nostri adolescenti sembrano peggiorare?

Credo che dobbiamo assumerci la responsabilità di una narrazione sociale senza futuro, in cui non stiamo riuscendo ad offrire alle nostre nuove generazioni un orizzonte di senso sostenibile. Come possiamo aiutarlə a pensare il proprio cammino su un terreno di relativa sicurezza, tra una guerra nucleare e un disastro ecologico? Forse sul ponte della precarietà lavorativa? O sul palcoscenico del successo individuale che ne certificherà la validità o il fallimento esistenziale? Possiamo dubitarne.

Se non possiamo cambiare questo ordine ingiusto (ma davvero non possiamo?), allora alle nuove generazioni serve da parte nostra una struttura di relazioni solidali per sentirsi sicurə nel muoversi verso l’ignoto, e una rete di sguardi fiduciosi nelle loro risorse, che lə supporti in questa prospettiva piena di incertezza. Ma noi, generazioni precedenti, abbiamo la fiducia nella nostra capacità di esserci e di fare la nostra parte?

Federico Ferrari, Psicologo Psicoterapeuta, Terapeuta di Coppia e Familiare

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