In occasione della Giornata internazionale della donna pubblichiamo la riflessione “Il corpo delle donne, un’arma di guerra”, a cura della Redazione. Una riflessione che affronta il tema dei crimini di guerra in una prospettiva di genere. Dopo una breve analisi delle caratteristiche che rendono la donna più vulnerabile nei paesi in guerra, si ripercorre il cammino socio-giuridico che ha portato al riconoscimento dello stupro sistematico e di tutte le altre forme di violenza sulle donne e sui bambini come armi di guerra e crimini contro l’umanità.

Il corpo delle donne, un’arma di guerra

In questo 8 marzo, anche alla luce della situazione internazionale, appare doveroso riflettere sull’impatto che i conflitti bellici producono sul benessere psico-fisico delle donne.

In guerra tutti soffrono, ma il dolore delle donne ha connotati più gravi. Queste sono più vulnerabili in quanto in molti paesi colpiti dalle guerre la parità di genere è ancora un’utopia. Le donne sono relegate al ruolo di custodi del focolare domestico, non hanno facile accesso all’istruzione e al mondo del lavoro; hanno, quindi, meno strumenti dell’uomo per poter attuare strategie di fronteggiamento. Un ulteriore fattore di vulnerabilità è rappresentato dal loro corpo, un corpo che durante i conflitti si trasforma in un campo di battaglia. Lo stupro sistematico, le gravidanze e le sterilizzazioni forzate e tutte le altre forme di violenza sono state sempre usate come strumenti per attuare piani di pulizia etnica e per indebolire il morale e il senso identitario dei maschi del gruppo avversario. Tali pratiche sono sempre esistite anche se è dalla guerra nella ex-Jugoslavia che si inizia a riconoscerle e a definirle come armi di guerra e crimini contro l’umanità.

È proprio da questo momento in poi che cresce il dibattito sia a livello culturale che istituzionale sull’aspetto di genere nei crimini di guerra. Nel 1998, per la prima volta, viene punito lo stupro di guerra come atto di genocidio dal Tribunale internazionale per il Rwanda e nel 2001 come crimine contro l’umanità dal Tribunale internazionale per la Jugoslavia. Nel 2002 la Corte Penale Internazionale annovera lo stupro tra i crimini di guerra e contro l’umanità. È inserito, quindi, in due fattispecie di crimine poiché non è considerato solo come strumento di offesa della dignità della persona, ma anche come coartazione psico-fisica che mina profondamente e a volte irreversibilmente l’identità della vittima e dell’intero gruppo a cui appartiene. Ha, inoltre, il potere di incidere sugli avversari connotandosi come arma psicologica utile a raggiungere obiettivi strategici a livello militare e/o politico. Le donne e le ragazze, vittime “privilegiate”, si connotano come un bottino di guerra, un premio per aver combattuto in maniera eroica.

Nel 2008, l’ONU affronta tale tematica chiedendo l’immediata e completa cessazione di tutti gli atti di violenza sessuale perpetrati sui civili, nonché l’impegno di tutte le parti coinvolte nei conflitti per attivare adeguate ed incisive misure di protezione dei civili, con particolare riguardo a donne e ragazze. L’anno successivo vengono delineati programmi di formazione specifici per gli operatori delle missioni di pace e la protezione di donne e bambini dalla violenza sessuale viene declinata come una responsabilità delle missioni ONU. A tal proposito il Consiglio di Sicurezza delinea il profilo dei women’s protection advisors, responsabili della pianificazione della protezione di donne e bambini nei teatri di guerra. Essi sono coadiuvati, nello svolgimento delle loro funzioni, dal personale militare, preferibilmente di genere femminile.

Nel 2019, l’Onu affronta nuovamente l’argomento focalizzandosi sulle conseguenze psico-fisiche nella vita dei sopravvissuti. Questi ultimi, infatti, soffrono di disturbi psicologici, provano un senso di vergona che intacca la vita quotidiana e, a volte, sono discriminati dalle comunità di origine come soggetti marchiati di infamia. Per non parlare poi dei figli dello stupro, che in seno alle comunità non sono riconosciuti come titolari di diritti. Chiede, inoltre, a tutte le parti coinvolte nei conflitti armati di mettere subito fine agli atti di violenza sessuale; invita a implementare le legislazioni statali contro la violenza sessuale e le relative sanzioni; chiede un incremento della circolazione di informazioni e dell’analisi delle violenze sessuali perpetrate nei conflitti; incoraggia la creazione di Comitati di inchiesta per l’applicazione di “sanzioni mirate”, anche con l’ausilio di esperti. Si sofferma, infine, sulla tutela dei bambini nei conflitti e sulla necessità di individuare le cause profonde di questi crimini, anche attraverso visite periodiche nelle zone di conflitto e ascolto di gruppi di donne locali.

Nonostante siano stati compiuti molti passi in avanti, la strada da percorrere è ancora lunga come dimostrano gli eventi attuali. Le notizie che vengono dall’Ucraina, dalla Siria, dai campi profughi libici e dalle altre parti del mondo che vivono un conflitto, sono caratterizzate dalla descrizione di efferate violenze sui civili, nonché di corpi di donne e bambini martoriati. È necessario, quindi, continuare a parlarne e stimolare un’azione collettiva che prema sui governi e sulle Istituzioni internazionali affinché attivino strategie operative ed incisive tese all’eliminazione o quantomeno alla riduzione del fenomeno.

A cura della Redazione

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