Dall’acceso e violento dibattito sul fine vita originato dal caso Englaro, sta mutando l’approccio sulle questioni del fine vita, nel senso che viene a manifestarsi una maggiore consapevolezza dell’evoluzione scientifica e medica sulla salute ed è aumentata la sensibilità sul riconoscimento dell’autodeterminazione sulle decisioni nell’ultima fase della vita.

Lentamente e gradatamente qualcosa sta mutando anche in ambito legale: mi riferisco alla sentenza della Corte Cost. 242/2019. Sappiamo dalla L.219/2017 che la legge non consente al medico di mettere a disposizione del paziente trattamenti atti a determinarne la morte. Il legislatore circoscrive il “diritto a morire” a due sole modalità, ovvero il rifiuto di cura di trattamenti già intrapresi e l’opzione per le cure palliative.

La Corte con la sentenza menzionata è venuta a dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art.580 c.p., nella parte in cui non esclude la punibilità di chi…agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, formatosi liberamente e autonomamente di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale ed affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, semprechè tali condizioni e le modalità di esecuzione siano verificate da una struttura pubblica del SSN, previo parere del comitato etico competente territorialmente.

Il fatto. Federico, inizialmente denominato Mario, rimane vittima di un incidente stradale nel 2010 che gli provoca la rottura della colonna vertebrale, con conseguente lesione del midollo che lo rende completamente immobilizzato e dipendente dagli altri per ogni sua necessità. Federico, consapevole delle sue condizioni che sono definitive ed insostenibili, chiede gli venga somministrato un farmaco letale, ma l’Azienda sanitaria contesta che, in mancanza di una specifica legge, possa individuarsi un obbligo a suo carico, integrato da un comportamento attivo di prestare assistenza al suicidio e, di conseguenza, un diritto del paziente di ottenere un adempimento in questo senso.

Federico di fronte a tale rifiuto, promuove un’azione giudiziaria per superare il diniego espresso dall’Azienda sanitaria, la quale afferma che il paziente può sempre decidere di rifiutare i trattamenti sanitari, usufruendo della “terapia del dolore” e, nel caso di necessità, anche della sedazione profonda. Federico rifiuta tale metodo in quanto vuole essere lucido mentalmente, senza determinare sofferenze alla propria madre.

I giudici del reclamo riconoscono il diritto all’accertamento delle condizioni possibili affinchè si possa procedere con una morte dignitosa (cioè la verifica della sussistenza delle condizioni di fatto e la correttezza delle modalità di esecuzione), previo parere del comitato etico competente. In caso di accertamento positivo, il richiedente – Federico – ha diritto di vedersi prescrivere il farmaco al fine di alleviare le sue sofferenze con una morte rapida ed indolore.

Fin qui l’iter, doloroso, e a dire di Federico, doveroso per una persona che si ritrova suo malgrado, in quelle condizioni fisiche.

Quello ottenuto è molto più di una vittoria personale: è un tabù che cade, o meglio, che viene scosso, minato, in un contesto come quello italiano, ancora troppo indietro su tanti fronti.

Quali osservazioni possono seguire a tale vicenda? Dovrebbe esser richiesto al legislatore una maggiore umanità e sensibilità nell’ approcciare a certe disposizioni tanto sterili quanto asciutte ed astratte. Si dovrebbe porre la persona -con le sue paure, le sue angosce, i suoi desideri – al centro, sì della legge, ma soprattutto la stessa non dovrebbe essere applicata in modo sterile, arido, freddo ed impersonale. Basti pensare all’iter, definirlo difficile è un eufemismo, che ha seguito Federico: lo stupore immane di non trovarsi più sé stesso all’indomani dell’incidente, la paura della nuova condizione, qualche speranza disseminata qua e la di poter riprendere la vita di un tempo, subito troncata dalla diagnosi infausta, qualche speranza in qualche cura miracolosa o nei miracoli della scienza medica, subito attutita. Pensiamo alla difficoltà di adattamento, ai diversi, e penso ce ne siano stati molti, tentativi di comprendere e far propria questa “nuova vita”, agli sforzi compiuti al fine di far propria questa limitazione. Una mia cara amica, biologa, fervente cattolica, afferma come in questi casi debbano essere gli altri a farsi carico della disabilità del soggetto, facendolo sentire come un tempo, ovvero come una persona senza alcun impedimento. Nobile pensiero, certo il suo, sul quale però non mi trovo in sintonia. Certo Federico non ha scelto immediatamente il suo destino sinistro, ha tentato, con ogni mezzo resosi possibile, di perseguire una simil vita rispetto a quella vissuta precedentemente, ha lottato, ha sperato, ma forse gli ostacoli erano davvero tanti, inelencabili e insormontabili e si facevano sempre più pesanti e vicini in modo inesorabile.

Non è stata una scelta facile da compiere, come si desume anche dalle sue ultime parole “Non nego che mi dispiace congedarmi dalla vita. Sarei falso e bugiardo se dicessi il contrario perché la vita è fantastica e ne abbiamo una sola. Ma …io sono allo stremo sia mentale sia fisico…ho fatto tutto il possibile per riuscire a vivere il meglio possibile e cercare di recuperare il massimo dalla mia disabilità…cosa mi cambierebbe rimandare…sarebbe solo rimandare dolori e sofferenze e ciò non avrebbe senso…non ho un minimo di autonomia nella vita quotidiana e sono in balia degli eventi…come una barca alla deriva”.

Ed è così che Federico ha scelto, la via per annullare tutto, la via dalla quale indietro non si torna. Dio solo sa se ci vuole coraggio e mai nessuno può essere lieto di farlo.

Un grazie glielo dobbiamo: pionieri, proprio malgrado, lo si diventa senza la necessità di scoprire nuovi mondi, ma nuovi modi di essere, affini alla propria sensibilità e al proprio dolore. Un coraggio immenso, grazie Federico.

Da ultimo possiamo affermare che le implicazioni giuridiche, etiche e morali, unitamente alla profonda tensione esistente tra istanze/pressioni/forze differenti – diritto alla libertà, all’autonomia, alla salute, all’eguaglianza –  rendono indifferibile l’intervento del legislatore, affinché un tema quale quello della volontà del paziente sul fine vita non venga rimesso alla volontà di notai e giudici, chiamati sempre più frequentemente ad esprimersi quando e se tale volontà debba trovare attuazione. Romano 8/9 notariato 22.

Daniela Leban