Korczak non ritiene che chi cresce sia un oggetto naturale, e quindi da considerare come si considera una pianta da appartamento. Non possiamo dire “il mio bambino” come diciamo “la mia pianta”. Chi cresce porta al dovere di considerare inammissibile lasciare il mondo come lo abbiamo trovato. Il diritto del bambino ad essere come è.

“Ci chiediamo con ansia: «Chi diventerà, cosa farà nella vita?» Vogliamo che i nostri bambini siano meglio di quello che siamo noi. I nostri sogni sono popolati dal futuro uomo perfetto. […] Siamo stati allevati male. È troppo tardi. Difetti e stranezze sono ormai ben radicati. I bambini non hanno il diritto di criticarci e noi stessi non abbiamo più motivi per farlo. Se ci discolpiamo in questo modo, rinunciamo per sempre a lottare contro di noi. Solo i bambini sono tenuti ad affrontare questa sofferenza”[1] .

Non possiamo pensare, noi adulti, per chi cresce. Deve crescere esplorando, e quindi potendo esprimere quello che pensa, a volte giocando a essere qualcuno diverso da sé stesso […] in ciò consiste il valore nell’essere cioè, attivamente quello che siamo per caso, nello stabilire con gli altri e con noi stessi quella comunicazione resaci possibile dalla nostra struttura temporale e di cui la nostra libertà è solo l’abbozzo”[2]. Korczak sarebbe stato molto in sintonia con queste poche righe di Merleau-Ponty. L’autodeterminazione non dovrebbe essere scambiata con l’idea che possiamo fare ciò che vogliamo. Questo sarebbe un imbroglio, e chi cresce non deve essere imbrogliato. Ma deve essere impegnato nel capire. Imparando a distinguere, a discernere, a riflettere, ad avere un proprio giudizio, ben meditato. E potendolo esprimere. Con i mezzi che ha, e che potrebbero essere quelli che Gianni Rodari, in una delle sue Favole al telefono racconta. Leggiamolo:

“Un topolino dei fumetti, stanco di abitare tra le pagine di un giornale e desideroso di cambiare il sapore della carta con quello del formaggio, spiccò un bel salto e si trovò nel mondo dei topi di carne e d’ossa.

Squash! – esclamò subito, sentendo odor di gatto.

Come ha detto? -bisbigliarono gli altri topi, messi in soggezione da quella strana parola.

Sploom, bang, gulp! – disse il topolino, che parlava solo la lingua dei fumetti.

Una volta andarono a caccia in un mulino, pieno di -sacchi di farina bianca e gialla. I topi affondarono i denti in quella manna e masticavano a cottimo ‘, facendo: crik, crik, crik, come tutti i topi quando masticano. Ma il topo dei fumetti faceva: — Creò, screh, schererek.[…]

Chi cresce deve poter esprimere quello che pensa anche se sbaglia. Come altri educatori e maestri, Mario Lodi considerava fecondo l’errore. Era in sintonia con le ricerche. Un esperimento dimostrativo è stato condotto molto tempo fa da Herbert e Harsh. A due gruppi di gatti era stato insegnato a tirare dei fili e ad aprire porte osservando altri gatti. Un gruppo di gatti vedeva soltanto le esecuzioni finali senza errori dei gatti modello, mentre l’altro gruppo vedeva anche le prime esecuzioni piene di errori oltre alle esecuzioni corrette. Tutti e due i gruppi dei gatti avevano imparato a risolvere i problemi più velocemente dei gatti del gruppo di controllo, che avevano imparato solamente dalle loro esperienze contingenti. Ma i gatti che vedevano anche le esecuzioni piene di errori imparavano più prontamente di quelli che vedevano solamente le esecuzioni prive di errori.

Andrea Canevaro, pedagogista, professore emerito dell’Università di Bologna


[1] Korczak J. (1994), Il diritto del bambino al rispetto, Milano, Luni editrice, p. 53. Questo scritto è del 1929.

[2] Merleau-Ponty M. (1962; 1948), Senso e non senso, Milano, Il Saggiatore, p. 60

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