“Fate tutte così, vi trovate un bell’impiego e poi vi fate mettere incinta”. Ormai non lo ascolto nemmeno più. Almeno in questa frase non ci sono insulti. Ho imparato a farci l’abitudine. No, non è vero. Non ci si abitua mai all’umiliazione e all’ingiustizia. A ferirmi di più sono quelle stesse parole quando a pronunciarle non è il titolare ma sua moglie, una donna come me che di figli ne ha avuti tre. Come se non sapesse i sacrifici che comportano i bambini, soprattutto quando sono piccoli.

“Almeno te lo fossi tenuto l’uomo che ti ha ingravidata”. Un’altra frustata. Si può tenere un uomo che non ti vuole? O almeno, un uomo che vuole te ma non suo figlio? No, non me lo sono tenuto. Ma il bambino sì. Lo sto crescendo da sola, con l’aiuto di mia madre, quando non lavora, e di una vicina che però vuole essere pagata, giustamente. E io di soldi non ne ho. Quelli che guadagno mi servono tutti per pagare l’affitto e per mantenere me e mio figlio. Io ho bisogno di lavorare.

Non mi pesano le nottate in bianco. Non mi pesano i soldi che non bastano mai. Non mi pesano nemmeno le sporte di vestitini usati che qualche amica pietosa mi passa, tanto il tempo scorre e nemmeno ti ricordi i vestiti che hai messo ad un neonato. Mi pesa il dover sperare, il dover pregare, che il bambino stia bene, che non si ammali, che non abbia bisogno del pediatra. E non per la sua salute, per il suo benessere. Lo spero per non dover chiedere un cambio turno, un giorno di permesso, uno di congedo. Perché ogni volta è una tragedia. Mi è pesato lavorare fino all’ottavo mese, con la pancia che ormai non entrava più nello spazio tra la sedia e la cassa; mi è pesato ancora di più rinunciare ad allattare mio figlio, perché sapevo che non mi sarei potuta permettere un allattamento lungo; e quanti magoni ho dovuto mandare giù ogni volta che me ne andavo due ore prima della chiusura, perché quello era il mio diritto, fino al compimento dell’anno del bambino. Ma qui, il diritto a fare i figli ce l’hanno solo quelli che comandano. I nostri figli non esistono. Per loro non sono nemmeno bambini. Sono parassiti, esseri con bisogni inconciliabili con i turni, con gli ordini, con le esigenze di un negozio. Come se quel negozio, fino ad ora, l’avessero mandato avanti senza di me.

Non se lo ricordano più quante vigilie di Natale ho chiuso la serranda dopo le 20,30, per consentire alla signora di preparare il cenone. Come se io una famiglia non l’avessi avuta.

Quanti straordinari ho fatto quando i suoi di bambini erano ammalati. Quanti conti mi sono portata a casa da controllare perché loro avevano sempre qualcosa di urgente da fare: il dentista del figlio grande, la macchina da portare dal meccanico, l’imbianchino, il giardiniere, l’idraulico.

E adesso che io ho bisogno, mi trattano come una speculatrice. A volte mi sembra che vogliano fare di tutto per farmi andare via, perché sia io a chiedere le dimissioni. Come quando dicono delle cose orribili, solo per il gusto di ferirmi. “Guarda che qua c’è gente che ha bisogno di essere servita, mentre tu te ne stai a casa col figlio di quel deficiente”. In realtà, per loro, la deficiente sono io che mi sono fatta mettere incinta. Senza farmi prima sposare. Senza essere sicura che anche lui volesse un bambino. Senza essermi fatta dare una lira per il mantenimento. Senza averlo obbligato a riconoscere il bambino.

Ogni volta che uso il telefono per chiedere a mia madre o alla baby sitter come sta il mio figlio mi guardano come se volessero uccidermi con lo sguardo. Ogni volta che dico che ha la febbre o che la babysitter mi ha lasciata a piedi hanno sempre la stessa battuta terribile: “Bisogna pensarci prima di farsi fregare dal primo che passa alle conseguenze”. Mio figlio è una conseguenza. La conseguenza di un errore di valutazione.

Questo è ciò che pesa sulla mia anima fino a farmi svegliare la notte, fino a non permettermi di respirare.

Ma di quel lavoro ne ho bisogno e anche se vorrei ogni sera chiudermi la porta dietro le spalle e non aprirla mai più, sento che non posso mollare proprio adesso.

Sono stata in una decina di agenzie interinali, ma chi la vuole una donna di quasi quarant’anni, sola e con un bambino di un anno e mezzo?

Ho anche pensato di denunciare, di andare ad un sindacato. E poi? Poi mi dovrei licenziare davvero. E poi chi ce li ha i soldi per l’avvocato? E con quei due spiccioli di risarcimento che mi darebbero, se mai me li daranno, potrei campare al massimo sei mesi. E dopo, che ne sarebbe di noi?

Mi massaggio la schiena e guardo l’orologio. Tra poco è l’ora della chiusura. E a casa mi aspetta lui. Lui che è l’unico a non chiedermi niente, l’unico che quando mi vede mi tende le braccia, come se avesse visto l’ottava meraviglia del mondo. Lui che ancora non sa che stiamo combattendo una dura battaglia. Ma che mi dà la forza di alzarmi ogni mattina, con un amore più grande del mondo intero.

(Quadro di Maria Reggini)