1. Cos’è

            Per vittimizzazione secondaria intendiamo quelle ulteriori sofferenze fisiche o psicologiche che vengono inflitte alla vittima di una condotta offensiva arrecata da molteplici possibili autori, non necessariamente consapevoli del danno cagionato. Esemplificando, tra questi soggetti troviamo le istituzioni, i media, il contesto sociale amicale e familiare, e così via.

            A livello istituzionale, vittimizzazioni secondarie avvengono ad opera della giustizia penale e civile, delle forze dell’ordine, della stampa e televisione, dei social, della scuola, della sanità. A livello di contesto sociale, si pensi al vicinato, all’ambiente scolastico, alla cerchia amicale e a quella parentale.

2. Effetti

            Quando l’attenzione si sposta dal colpevole alla vittima, sorgono in questa sensi di colpa e il timore di avere dato causa al fatto col suo comportamento. Tutto questo rende più difficile denunciare altre violenze e crea una profonda sfiducia nelle istituzioni a cui spetterebbe di proteggerla.

            Le vittime che decidono di denunciare una violenza domestica sono più a rischio di ritorsioni e di vittimizzazione secondaria rispetto alle vittime di altri reati, essendo spesso coinvolte affettivamente o conviventi con i perpetratori dei crimini in questione. È dunque necessario che sia garantita l’incolumità e la sicurezza di chi denuncia.

3. Azioni di contrasto.

            Da trentacinque anni[1] azioni di contrasto vengono poste in essere da governi, legislatori, ordini professionali, associazionismo e volontariato. L’impulso è stato dato dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti del Fanciullo (CRC), firmata a New York il 20 novembre 1989 e ratificata dall’Italia con legge 27 maggio 1991 n. 176. Nella fase iniziale, l’attenzione è rivolta in particolar modo alla protezione dei minorenni[2].

            Nell’art. 16 la Convenzione stabilisce che: 1. Nessun fanciullo sarà oggetto di interferenze arbitrarie o illegali nella sua vita privata, nella sua famiglia, nel suo domicilio o nella sua corrispondenza, e neppure di offese al suo onore e alla sua reputazione. 2. Il fanciullo ha diritto alla protezione della legge contro tali interferenze o tali offese.

            In campo penale, a livello normativo va ricordato l’art. 114 comma 6 del C.p.p.  il quale vieta “la pubblicazione delle generalità e dell’immagine dei minorenni testimoni, persone offese o danneggiati dal reato fino a quando non sono divenuti maggiorenni. È altresì vietata la pubblicazione di elementi che anche indirettamente possano comunque portare alla identificazione dei suddetti minorenni”.

            Più specificamente, nel processo penale minorile l’art. 13 del processo penale minorile (D.p.r. 22/09/1988 nr. 448) vieta la pubblicazione e divulgazione con qualsiasi mezzo di notizie o immagini atte a consentire l’identificazione del minorenne comunque coinvolto nel procedimento. Va ricordato però che inizialmente il nuovo processo penale minorile non consentiva alla vittima di costituirsi parte civile contro il minorenne (art. 10 DPR citato).

            In materia civile, fenomeni di vittimizzazione secondaria possono verificarsi per i minori nei procedimenti di separazione e di affidamento, dove la conflittualità fra le parti può essere assai elevata. La violenza psicologica viene minimizzata, oppure non viene affatto riconosciuta.  Da ultimo però la legge Cartabia e il Decreto attuativo 10/10/2022 n. 149 hanno minutamente disciplinato l’ascolto del minore e le sue modalità, (cfr. art. 473 bis 4 e segg.).

4. Violenza sessuale e di genere

            Le cautele menzionate più sopra riguardano le vittime di violenze a prescindere dal sesso. Ma la parte assolutamente preponderante riguarda le donne, per cui si parla anche di violenza di genere.

            Solamente nel 1996 con la legge 15 febbraio n. 66 recante Norme sulla violenza sessuale, il parlamento ha abrogato la vecchia normativa sui delitti contro la moralità pubblica e il buon costume, introducendo nel Titolo 12 del Libro Secondo del codice penale la Sezione “Dei delitti contro la libertà personale”. In questa ha raggruppato nell’art. 609 bis rubricato “Violenza sessuale “tutte le fattispecie in cui “chiunque, con violenza o minaccia … costringe taluno a compiere o subire atti sessuali”, prevedendo una pena edittale da sei a dodici anni [3], riducibili di due terzi nei casi di minore gravità.

            Non basta dunque il dissenso della vittima, ma occorre anche la prova della sua effettiva costrizione. Da ciò consegue che nei casi in cui durante l’atto la vittima abbia taciuto, non abbia gridato o non abbia posto resistenza attiva per paura, il colpevole andrà prosciolto.

            Una semplice riforma potrebbe porre rimedio a questa incongruenza: sostituire alla violenza o minaccia la mancanza del consenso. A questo scopo, una analoga posizione degli Organi europei sarebbe di grande impulso per il legislatore italiano.

5. Commissione Europea

            La Commissione Europea nel marzo 2022 ha presentato al Consiglio e al Parlamento la proposta di una direttiva per il contrasto e la prevenzione della violenza contro le donne e la violenza domestica negli Stati dell’Unione.

            Per lo stupro, la proposta prevedeva che gli Stati membri dovessero sostituire alla violenza o minaccia la mancanza del consenso. Pertanto, nelle condizioni in cui non c’è possibilità di scelta e autodeterminazione, l’atto è da considerarsi non consensuale. Questo include situazioni in cui la vittima è sotto l’effetto di sostanze, oppure è in situazioni di squilibrio di potere o dipendenza economica.

            Il Parlamento Europeo ha approvato la proposta di direttiva[4], ma il Consiglio Europeo (organo composto dai Capi di Stato e di Governo dei Paesi membri che ha il compito di definire le priorità e gli indirizzi politici generali dell’Unione) si è espresso negativamente sulla definizione di stupro basato sul consenso.

6. In conclusione

            In conclusione, nonostante il voto quasi unanime del giugno 2022, la direttiva è bloccata[5]. Il bilancio di questi decenni può essere considerato deludente, tenuto conto degli sforzi compiuti a diversi livelli per contrastare la vittimizzazione e la violenza di genere. In effetti, la Convenzione di Istanbul non è ancora in vigore, la riforma dell’art. 609 bis del Codice penale non è nell’agenda del Parlamento italiano, la Carta di Treviso aggiornata è oggetto di violazioni, il controllo sui social è facilmente aggirato.

            In un certo senso, era prevedibile poiché si tratta di ribaltare una forma mentis profondamente radicata e una cultura trasmessa da generazioni. Ma i fermenti che stanno maturando obbligano a proseguire gli sforzi e a guardare al futuro con ottimismo.

Luigi Fadiga, già giudice minorile


[1]. La prima azione di contrasto strutturata risale al 1990 con la Carta di Treviso, un protocollo firmato da Ordine dei giornalisti, Federazione nazionale della stampa italiana e Telefono azzurro con l’intento di disciplinare i rapporti tra informazione e infanzia. Il 30 marzo 2006 la Carta è stata aggiornata.

[2]. Da ultimo, e con specifico riferimento alle donne, va citata la Convenzione di Istanbul, ratificata dall’Italia con la legge 27 giugno 2013 n. 77. Sino ad oggi la Convenzione è stata firmata da 32 Stati, ratificata da 8 Stati; non è dunque ancora entrata in vigore.

[3]Così aumentata con successiva legge n. 69/2019 (c.d. codice rosso).

[4]. Le direttive dell’Unione Europea fissano i principi generali di una disciplina, lasciando liberi gli stati rispetto ai mezzi di recezione della stessa negli ordinamenti interni. In Italia, esse vengono recepite con Decreti legislativi, atti aventi  valore di legge, adottati dal Governo in attuazione di una legge delega del Parlamento o di una direttiva comunitaria.

[5]Tra i membri del Consiglio europeo che si sono opposti alla definizione sulla base del concetto di consenso ci sono  Francia, Germania, Ungheria, Polonia.

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